Alcuni commenti a Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi di F. Sylos Labini

In un’epoca in cui la teoria economica ufficiale ammette per bocca di molti dei suoi protagonisti la propria inadeguatezza a comprendere il mondo e la crisi, si moltiplicano gli studi critici che evidenziano le debolezze della scienza economica. Questo è anche il senso condivisibile di questo libro, e ne costituisce uno dei due obiettivi. L’altro è analizzare il tema della struttura e degli incentivi alla ricerca scientifica con critiche sacrosante al modello attuale. Tali critiche peraltro, valgono per ogni disciplina scientifica, dall’economia alla biologia, dalla fisica alla geologia. Concordando quasi totalmente su questi ultimi aspetti, non li commenteremo qui. Giova solo osservare che nel descrivere temi quali le mode e il conformismo, un serio problema della ricerca moderna, l’autore non cita il tema dell’herd behaviour e del beauty contest keynesiano; questo è significativo perché avrebbe costituito un naturale trait d’union tra l’analisi della ricerca e la critica alla teoria economica ortodossa. Continua a leggere Alcuni commenti a Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi di F. Sylos Labini

IKEA: il gigante dal volto umano?

“Profitto è una parola meravigliosa” Ingvar Kamprad

Alzi la mano chi non ha passato qualche ora tra mobili dai nomi impronunciabili dentro un enorme scatolone di cemento giallo e blu. IKEA è oggi il più grande produttore di mobili europeo e uno dei più grandi del mondo. È una multinazionale con 150.000 dipendenti diretti e per la quale lavorano quasi un milione di persone. Eppure, nonostante sia un colosso come Wal-Mart o la Coca Cola, la sua immagine è di tutt’altro tipo. Anche grazie all’origine svedese, in qualche modo, progressista, ecologista, l’IKEA rappresenta, per molti, il volto umano della globalizzazione.

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Come nazionalizzare una banca

Siamo tutti socialisti ora – “Newsweek” 16.2.2009
Nazionalizzare per salvare il libero mercato – “Financial Times” 13.10.2008

All’inizio del 2008, chi negli Stati Uniti avesse proposto di nazionalizzare una banca avrebbe potuto essere arrestato per incitamento alla sedizione. Nel 2009, la proposta era avanzata da tutto lo spettro politico del paese, a partire dallo stato maggiore repubblicano. La borghesia è stata costretta a un massiccio intervento pubblico per salvare il capitalismo, con ciò confermando che la mano pubblica di per sé non ha nulla di positivo per i lavoratori. In questo articolo cercheremo di analizzare come sono avvenute le nazionalizzazioni, perché sono state scelte quelle modalità e con quali alternative l’intervento avrebbe favorito i lavoratori e non i banchieri.

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I, robot. L’animo di un automa tra Mary Poppins e Terminator

Un film nel complesso interessante. Solleva notevoli interrogativi, anche se non risponde a tutti. Propone uno scenario fantascientifico di ispirazione molteplice. Le leggi della robotica e in particolare il racconto omonimo di Asimov sono ovviamente il punto di partenza. Ma tra gli ingredienti troviamo “Blade Runner”, “Matrix”, “Io e Caterina”, “Guerre stellari”, “Terminator”, “Robocop”, “Il pianeta delle scimmie” e ovviamente l’Hal 9000 di “2001. Odissea nello spazio”.

L’idea di fondo è semplice e certo non nuova: la logica delle macchine, anche se a fin di bene, è talmente implacabile da risultare alla fine distruttiva. Non si può fare a meno del discernimento umano. Dietro a questo tema, che si ricollega come vedremo a questioni sociali ben note, si affacciano problemi filosofici rilevanti: che cos’è la coscienza, che cos’è il libero arbitrio, la volontà. In terzo luogo, come tutti i film in cui le macchine si ribellano, risolve il problema tecnico-filosofico della possibile nascita dell’intelligenza artificiale nel senso della sua possibilità.

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Il 18 Brumaio di Anakin Skywalker

Quest’anno (l’articolo originale è del 2007) ricorre il trentennale di Guerre stellari, la saga più famosa e più vista della storia del cinema di fantascienza, che ha profondamente trasformato. Cercheremo di scoprire perché.

Se a una lettura immediata, Guerre Stellari descrive la classica lotta tra il bene e il male trasportata nello spazio, la trama del film è talmente intessuta di riferimenti morali e ideologici da far apparire i duelli e le battaglie solo lo sfondo per far passare messaggi molto più profondi. La pluralità dei piani narrativi non è nuova per i film di “avventura” (siano essi western, cappa e spada o sci-fi), ma Guerre Stellari va oltre, fornendo una rilettura moderna dell’epica classica, operazione già sviluppata nel Signore degli Anelli (che richiama anche narrativamente) e descritta nelle opere di Joseph Campbell, noto studioso e interprete moderno del mito che ha collaborato con Lucas. Il regista, come Tolkien, si pone il compito di presentare una visione religiosa medievale da contrapporre alla distruzione dei valori della civiltà occidentale, nel suo caso i miti del sogno americano nel periodo susseguente alla guerra del Vietnam e al Watergate. Tuttavia, a differenza del Signore degli Anelli, che si rivolge a un pubblico adulto e possibilmente colto come il suo autore, Guerre Stellari strizza l’occhio ad adolescenti e bambini. Ciò spiega personaggi quali gli ewoks e i gungan, le scenette slapstick dei due droidi, anche se nella seconda trilogia gli elementi farseschi sono notevolmente ridotti.

L’obiettivo dichiarato di forgiare un’etica dello status quo produce continui rimandi a tematiche religiose e spirituali incentrati sulla “forza”, ma anche su alcuni riferimenti concreti, come gli aspetti messianici della vita di Anakin. Resta da vedere se il connubio religione-avventura sia riuscito a produrre simboli forti sotto il profilo, se non della morale, almeno dei costumi. In realtà, non pare che la narrazione delle gesta della famiglia Skywalker abbia riavvicinato molti alle religioni tradizionali, al contrario, se sono credibili le statistiche secondo cui in alcuni paesi – tra cui la Gran Bretagna – i seguaci dei Jedi rappresentano percentualmente la quarta religione, ha accentuato la natura light delle convinzioni religiose della nostra epoca.

Sul piano politico, la saga esalta le dittature militari, da preferire alle pastoie della democrazia. Lo stesso Lucas in un’intervista al “New York Times” del marzo 1999 dichiarò: “non c’è probabilmente miglior forma di governo di un buon despota…egli può far realizzare effettivamente le cose. L’idea che il potere corrompe è molto vera e solo un grande uomo può andare oltre tutto questo”. Se poi si considera che il dittatore è anche un “illuminato”, si completa il quadro misticheggiante in cui la salvezza del mondo consiste nel consegnare il potere nelle mani del monarca di stirpe superiore. Forse l’autore avrebbe fatto meglio a ricordarsi, con Lord Acton, che il potere corrompe ma il potere assoluto corrompe assolutamente. Se il senato è inetto e corrotto, l’imperatore è anche un pazzo sanguinario.

La lezione politica che si intende dare alla saga è esplicita dunque, mentre il tessuto sociale che si descrive appare contraddittorio e, in definitiva, sembra avere l’unica funzione di far risaltare le gesta della razza superiore. Fa parte di questa visione cripto-spiritualista la condanna dei tratti più superficiali della produzione mercantile, come la diffusa ostilità etica verso il commercio e il profitto. L’avida federazione dei mercanti è presentata come la struttura dominante dello Stato, controlla l’esercito e la politica. Sono da subito alleati dei Sith, ma, in quanto esseri inferiori, ne sono facilmente manipolati e schiacciati. Il “lato oscuro”, cioè la brama astratta e assoluta di potere, si serve di tutto e tutti per giungere ai suoi scopi, come fanno l’anello e il suo signore nell’omonimo libro.

Oltre all’abnorme peso dei mercanti, la presenza di elementi quali la moneta e lo Stato porterebbe a concludere che si tratta di una società mercantile. Allo stesso tempo, la repubblica ingloba migliaia di sistemi sparsi per tutta la galassia con livelli di sviluppo i più vari. Vediamo così scorci di sistemi economici molto diversi, compresa la schiavitù, anche se ciò risulta del tutto incoerente con la presenza di processi produttivi del tutto automatizzati, di robot. Non a caso Luke pretende di affrancarsi dallo zio adducendo la presenza di un sufficiente numero di droidi. A cosa potrebbe mai servire il lavoro coatto degli uomini in una società così avanzata tecnologicamente?

Non essendo chiaro come possa una società così sviluppata avere problemi di scarsità di risorse, la crisi che la attanaglia non può che avere una ragione mistica. I tumulti nascono, come per la rivoluzione americana, da problemi connessi alla tassazione. Ma che basi ha l’ingordigia dei mercanti? Lucas taglia corto servendosi di mezzi lombrosiani: mercanti e banchieri hanno volti ripugnanti. Scopriremo poi che questi disordini sono creati ad arte dai Sith per giungere al potere. Ma il problema rimane: se ha potuto fomentare disordini separatisti è perché ve n’erano le condizioni, solo che non ci sono descritte. Perché alcuni pianeti vogliono secedere? Non li preoccupano certo i senatori, che come i deputati statunitensi di oggi sono a libro paga di chi ne finanzia la rielezione. Sia come sia, a questa minaccia il senato risponde con la mobilitazione militare; oltre che corrotta, la repubblica non garantisce dunque nemmeno il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Insomma, si tratta di un mondo decadente, così marcio che basterà un soffio per farlo crollare come un castello di carte.

Hitler e Augusto

Al di là delle astronavi e dei mostri coreografici, gli episodi storici tenuti presente per descrivere lo svolgersi degli eventi sono la repubblica di Weimar e la crisi della repubblica romana, come riconobbe lo stesso Lucas.

La repubblica di Weimar è richiamata nelle forze sociali che ne decretano il rovesciamento (le gilde commerciali, i banchieri, gli industriali), tutti uniti attorno all’uomo forte, di cui si servono come fece la grande industria tedesca con Hitler, salvo poi finirne subordinata. L’impero ha connotati chiaramente nazisti, dalle divise degli ufficiali alla purezza genetica degli aderenti, alla ferocia del capo assoluto. Come per il nazismo, la forza d’urto con cui la dittatura prende il potere (le SA, qui l’esercito dei droidi), viene distrutta non appena il potere è consolidato per lasciare spazio a elementi più fidati (le SS, qui l’esercito dei cloni). Come per la vittoria dei regimi fascisti in tutto il mondo, lo Stato democratico cova il germe autoritario e gran parte del personale politico-militare che aveva servito la democrazia si schiera velocemente con il nuovo regime.

La fine della repubblica romana è richiamata principalmente nelle forme con cui entra in crisi l’istituzione repubblicana: l’uso dell’esercito per dirimere questioni politiche. Quando la parola passa ai generali, i politici vengono fagocitati. Questo è quanto accadde ai democratici di Roma (da Mario a Cesare) che, per aver usato l’esercito contro Silla, Pompeo e gli altri aristocratici, aiutarono la fine della repubblica. Ne La vendetta dei Sith, il ricorso sempre più aperto all’uso della forza in politica è reso mirabilmente nella scena in cui Yoda e l’imperatore si combattono nella sala del senato. Uccidere il capo della repubblica per salvare la repubblica è una prova schiacciante dell’agonia in cui versa l’istituzione: cosa sarebbe successo se i Jedi fossero riusciti a destituire Palpatine? Yoda sarebbe diventato imperatore? Avrebbero eletto un cancelliere loro ostaggio? Non si possono resuscitare i cadaveri, nemmeno in politica. Morto Cesare venne Ottaviano. Infatti, lasciando perdere l’assenza di spiegazioni sulle ragioni materiali della crisi, il suo dipanarsi viene descritto in stretta analogia con la nascita del principato di Augusto: il capo della repubblica diviene il primo imperatore tra applausi scroscianti degli stessi senatori. Una volta formato, l’impero convive per un certo periodo con le precedenti istituzioni politiche (si parla di un senato imperiale) finché la potenza militare, incarnata dalla Morte Nera, permette all’imperatore di eliminare i residui orpelli repubblicani. Non è chiaro quanto questo cambiamento politico e morale incida sulla vita delle persone e nemmeno sul tessuto produttivo della galassia, se si esclude un maggior controllo statale, come sempre avviene per le economie di guerra, soprattutto fasciste. L’impero è “malvagio” e compie atti odiosi, ma perché la popolazione dovrebbe schierarsi con i ribelli, o terroristi, come verrebbero definiti dopo l’11 settembre, avanzi della vecchia corrotta classe politica? Lucas spinge lo spettatore a stare con i ribelli perché Luke “può ridare la libertà alla galassia”, ma questo implica un giudizio positivo sulla repubblica che ci viene invece rappresentata come un pozzo senza fondo di corruzione e squallore. Forse si parla della libertà dei Jedi di spadroneggiare o dei mercanti di schiacciare chi non si inchina al loro potere? Non a caso la storia finisce quando muore l’imperatore (non già l’impero, che è militarmente molto più forte della resistenza); i ribelli festeggiano felici, ma che succederà dopo? Si eleggerà un nuovo senato corrotto e futile a cui l’unico Jedi rimasto, Luke, farà da padrino? Luke stesso diverrà imperatore? La realtà è che lo stato maggiore dei ribelli non appare pronto a ereditare l’immane compito di amministrare la galassia ricostituendo la repubblica: l’unico esito possibile sembra l’anarchia, una conclusione certo non gradita a Lucas.

I Jedi e la forza

La saga si impernia sulla funzione della “forza” e dunque sui Jedi, che in qualità di suoi guardiani sono l’architrave narrativa della storia. La natura della forza è molteplice e ambigua. Per molti aspetti, soprattutto nella prima trilogia, essa appare come una forma di energia universale (“un campo energetico creato da tutti gli esseri viventi”), che crea la vita, fornisce una serie di poteri, rimandando alle concezioni religiose come l’induismo e il taoismo che assimilano le divinità a princìpi energetici. In quanto energia, questa forza può essere misurata quantitativamente, esiste nel mondo fisico e si lega agli esseri viventi attraverso i midichloriens, che vivono in simbiosi con i corpi in cui sono contenuti. Il legame non è però tanto chimico-fisico quanto psichico e volitivo. Siamo infatti informati nella seconda trilogia che questi midichloriens “comunicano il volere della forza”, che dunque è una vera entità intelligente.

Abbiamo così diversi piani di esistenza di questa entità-sostanza. Essa appare come un principio unificatore del reale, tipico delle filosofie pre-socratiche, ma insieme come una vera divinità, per giunta immanente, dato che risulta misurabile, di cui i Jedi sono i sacerdoti (non a caso la loro sede è definita “il tempio”).

Come succede per molti ordini monastici, i Jedi vengono scelti per le loro qualità innate quando sono giovanissimi, evidentemente per essere più plasmabili, laddove i “cattivi” Sith diventano tali da adulti, quando sono pienamente consapevoli delle proprie azioni.

Selezionato geneticamente, il Jedi subisce poi un indottrinamento politico-militare imperniato nel maneggio e poi nella costruzione della spada laser, un feticcio utile solo a evocare il medioevo, considerando che le battaglie vengono decise dalle astronavi. Sotto il piano morale, addestrarsi a “capire la forza” significa dominare le emozioni, con un chiaro riferimento al buddismo Zen, con contorno di concentrazione sul presente spazio-temporale e di superiorità dell’istinto sulla ragione. Questo addestramento morale è letteralmente castrante. Se la mortificazione della carne e delle pulsioni è un tratto comune a molte religioni, qui si raggiungono livelli parossistici. Yoda dice che un Jedi non deve ambire ad avere emozioni; dare sfogo alla rabbia e all’odio significa diventare cattivi. Tale mortificazione della propria parte emotiva è un’indicazione impossibile da seguire da parte di qualunque essere sociale cosciente e conduce fuori strada gli stessi Jedi: lungi dall’aiutarli, li rende fragili e inefficaci. Il succo della seconda trilogia, che narra della trasformazione di Anakin da bambino prodigio a feroce dittatore, sta appunto nella contraddizione tra i sentimenti positivi che sperimenta (l’amore per Patme, l’affetto per i suoi maestri) e il fatto che ai Jedi tutto ciò è vietato. Lo svolgimento della storia dimostra che uccidere i sentimenti non rende i Jedi migliori ma solo ciechi e la rinuncia agli affetti ha una parte decisiva nel passaggio di Anakin al lato oscuro. L’amore concreto per una piccola parte della vita stessa non contrasta affatto con l’amore astratto per ogni forma di vita, lo completa semmai.

Questa etica assoluta stona poi decisamente con la lezione di relativismo propinata da Obi Wan a Luke, quando, imbarazzato dalla sua scoperta delle bugie raccontategli sul destino del padre, risponde con una trita formulazione sul fatto che “le verità che affermiamo dipendono dal nostro punto di vista”. Che ne è allora dell’idea chiave che il lato oscuro sia il male? Forse che dal “punto di vista” dell’imperatore il lato oscuro non sia il “bene”?

I principi su cui si basa l’addestramento morale dei Jedi si dimostrano anche politicamente ambigui. Yoda dice che un Jedi usa la forza “per saggezza e difesa”, ma la storia evidenzia atteggiamenti estremamente aggressivi da parte dell’ordine. Tale ambiguità ideologica nasconde l’ipocrisia politica di individui personalmente pacifici e pacifisti, ma che formano una casta obiettivamente aggressiva, in quanto baluardo anche militare della repubblica. A che serve professarsi passivi e pacifisti quando si fa parte di un ordine guerriero? Yoda dice a Luke che “la guerra non fa nessuno grande”, lodevole massima, che però cozza con l’essenza stessa dei Jedi che sono, per l’appunto, un ordine militare.

In quanto guardiani dello status quo, i Jedi godono di un’influenza enorme, che va ben al di là del loro numero esiguo. Partecipano alle sedute del senato, hanno colloqui costanti con i massimi organi dello Stato, vengono inviati in giro per la galassia come diplomatici, influenzando le decisioni dei governi. Al contrario, il senato non ha alcun potere di interferenza nell’ordine, tanto che desta scandalo la richiesta del cancelliere Palpatine di far accedere Anakin nel consiglio supremo dei Jedi. Colpisce però che questa sorta di pretoriani della repubblica abbia in totale spregio lo stesso senato, che considera affollato di marionette delle corporazioni. Non a caso il più forte e dotato Jedi della storia, insofferente verso il teatrino della politica, diventerà il capo militare dell’impero, con ciò portando a compimento un ruolo di potere ombra che è un tratto implicitamente bonapartista nella struttura costituzionale della repubblica. I Jedi non rispondono a nessuno delle loro azioni, che intraprendono in base alle indicazioni della forza o più prosaicamente in base agli interessi dei loro alleati nel senato. Ci vengono presentati come esseri massimamente saggi, ma la loro natura militare e l’essere privi di ogni controllo faranno sì che basterà uno di loro per porre fine a mille generazioni di sapiente tutela della repubblica. Alla fine, i Jedi non si dimostreranno migliori dei mercanti o dei senatori. A che è servito allora “imparare la forza” se si può essere raggirati da un senatore corrotto e finire massacrati dai cloni di un bandito? Futili cavalieri senza nulla da cavalcare, non riusciranno a salvare il loro mondo e finiranno sterminati, proprio come i templari e i samurai.

Il lato oscuro e Anakin

La doppia natura della forza, di cui ci viene subito presentato un “lato oscuro”, rimanda al tipico dualismo filosofico-religioso (dal mazdaismo al manicheismo, dal taoismo allo Zen), ripreso nella concezione tardo-freudiana di Eros e Thanatos e nell’archetipo junghiano dell’ombra. In questa concezione totalizzante, il lato oscuro compendia ciò che di negativo può pensare la mente: rabbia, dolore, vendetta, aggressività, odio, sentimenti che conducono inesorabilmente alla perdizione. Tuttavia, la natura delle emozioni è assai più complessa di simili stereotipi infantili così come il legame tra ragione ed emozioni. I sentimenti positivi e negativi sono legati tra loro e alla ragione in forme complicate e spesso celate alla coscienza. Che dire poi dell’odio verso il lato oscuro, conduce anch’esso al lato oscuro? Solo l’indifferenza conduce alla salvezza? L’odio e il risentimento non sono emozioni necessariamente negative. Davvero era meglio essere indifferenti al nazismo piuttosto che odiarlo? Chi odiava i nazisti e li ha combattuti è poi diventato nazista? O piuttosto non era l’indifferente che se li è fatti piacere?

Guerre Stellari stessa dimostra che l’atarassia emotiva non aiuta i Jedi a comprendere meglio il mondo in cui vivono né a combattere il lato oscuro. Anziché evolvere, i Jedi sono rimasti gli stessi per secoli, supponendo di poter mantenere l’ordine con la spada e i loro patetici trucchi mentali, cosicché l’intero ordine si dimostra del tutto inadeguato a comprendere e sconfiggere due soli Sith.

Sotto il profilo politico e morale non si comprende quale differenza ci sia nel comportamento di queste due facce della forza. I Sith non appaiono più irascibili o aggressivi dei Jedi. In più circostanze si dimostrano decisamente più “umani”, anche se sono raffigurati in modo esteticamente ripugnante per convincerci che sono davvero il male. Se il lato oscuro è odio, aggressività e ira, perché Darth Vader o il conte Dooku, o l’imperatore stesso appaiono calmi e rilassati mentre i Jedi si agitano? I Sith sono dediti a sotterfugi ma questo vale anche per i Jedi, che chiedono ad Anakin di fare il doppio gioco e che cercano di influenzare di nascosto le menti deboli. Anche sotto il profilo politico, dato il livello di degenerazione della repubblica, non si giustifica la definizione dei Sith quali “agenti del male”.

All’interno dell’ordine dei Jedi, ha un ruolo speciale e unico Anakin Skywalker. Si è già accennato al connotato messianico ed escatologico della sua storia, con tanto di nascita virginale e di profezia. In quanto messia, Anakin crea sia l’impero che la ribellione. Lascia ad esempio C1-P8 al figlio e costruisce D3-BO, i due droidi che giocano un ruolo decisivo nella vittoria della resistenza. Rappresentato come il male stesso, Darth Vader si dimostra un padre amorevole, risparmiando Luke con la scusa che “può essere portato al lato oscuro”, un esito che, essendo i Sith solo due, avrebbe significato la propria condanna a morte, mentre a Luke propone di distruggere l’imperatore e governare la galassia come padre e figlio, il suo piano originale, quando passò al lato oscuro. Anakin-Vader è il personaggio più interessante della saga perché subisce un’evoluzione. In un universo statico di caratteri in bianco e nero, Anakin è complesso, profondo, è vero. Dotato di immense capacità, ma risentendo delle sue origini umili, freme per veder riconosciuta la sua importanza. Non impara a rinunciare all’amore e dunque a disinteressarsi della sorte delle persone amate. Questo sembra perderlo per sempre, ma alla fine lo salva. Di fronte al dilemma se salvare la repubblica dai Jedi o dall’imperatore, prende la strada del lato oscuro per ragioni personali (il riconoscimento, la possibilità di salvare la moglie) e politiche (non crede che la repubblica sia recuperabile, nemmeno dai Jedi). Inizia la sua carriera di Sith con un’azione spregevole (la strage degli innocenti), perde la battaglia contro il suo maestro Obi Wan e finisce a pezzi e sfigurato, tanto da dover riparare in un cupo corpo meccanico, con un processo che attinge alla leggenda del mostro di Frankenstein che, come Anakin, si ribellerà al suo creatore.

Il rapporto tra Anakin e il figlio Luke appare il legame più complesso della saga. Ha chiaramente alcuni connotati edipici, alimentati dallo stesso Yoda che spinge più volte l’allievo a uccidere il padre. Nonostante i suoi maestri cerchino di mostrargli Darth Vader come il male, irrecuperabile, non appena Luke sa che si tratta di suo padre, riesce a stabilire un contatto empatico con lui e ne percepisce un lato positivo. Da allora si pone il compito di redimerlo contro la loro opinione. Sulla strada della redenzione si pone lo stesso Darth Vader, che difende il figlio dalle mire dell’imperatore. La storia del rapporto tra i due Skywalker è la prova dell’irrilevanza dei principi etici dei Jedi. Non è vero che il passaggio al lato oscuro sia irreversibile, non è vero che la rinuncia al distacco emotivo conduce al lato oscuro. Al contrario, di fronte all’amore degli Skywalker il lato oscuro non può nulla.

Uomini e macchine

Buona parte del nucleo narrativo della fantascienza è incentrata sul rapporto uomo-macchina, in ciò cogliendo il tratto fondamentale dell’epoca moderna: la subordinazione produttiva dell’uomo al capitale, del lavoro vivo a quello morto. Questo rapporto può essere raccontato sotto molteplici aspetti ma il principale è proprio la rappresentazione di questo dominio incarnato nella possibilità di acquisire coscienza ed emozioni, eguagliando l’uomo in ciò che appare l’unica cosa al di fuori dalla portata delle macchine. Infatti se sotto il profilo del lavoro meccanico, della potenza di calcolo o dell’efficacia distruttiva, già da tempo le macchine hanno grandemente sopravanzato l’essere umano, possiamo consolarci osservando che, con buona pace dei teorici dell’intelligenza artificiale, alle macchine manca finora la coscienza, l’interazione di ragione ed emozione, di calcolo e sentimento da cui nasce il comportamento umano e la sua capacità di comprendere ed evolvere.

Poiché Anakin-Vader è l’asse di tutta l’epopea, è anche il perno del rapporto uomo-macchina. Alla fine della sua parabola è “più una macchina che un uomo”, dice Obi Wan, ovvero il suo lato buono (umano) è ormai sopraffatto da quello oscuro (la macchina). Non a caso lo scivolamento del giovane Anakin verso il lato oscuro è plasticamente rappresentato dalle amputazioni subite nei duelli, dove l’umanità di Anakin viene letteralmente fatta a fette, sostituita poco a poco dalla fredda logica delle macchine che, se ne deve desumere, è anche quella dei malvagi Sith. Lo stesso Luke rischia di passare al lato oscuro perdendo una mano nel duello contro suo padre.

Incongruenze e genialità

Resta qualcosa da dire sulla creatività disordinata dell’opera. Occorre riconoscere che il lavoro di Lucas e dei suoi collaboratori è magistrale, innovativo, certosino. Ogni cosa, o quasi, è al suo posto, i film sono curati nei dettagli più minimi. Specialisti di ogni ramo hanno ricreato costumi, lingue, suoni. La creatività nel rendere ogni particolare, dai pianeti alle astronavi, è sorprendente. Il mondo musicale “chaikovskiano” creato da John Williams è eccezionalmente brillante ed efficace. Gli autori sono stati anche attenti nel saldare la prima e la seconda trilogia, a nostro giudizio per nascondere la profonda differenza del loro tessuto narrativo. Nella prima, infatti, accanto alla solennità dei Jedi, ha un ruolo centrale lo scanzonato anarchismo di Han Solo, che pur essendo agli antipodi etici dei cavalieri, si riscatta permettendo ai ribelli di sconfiggere l’impero, a dimostrazione che non serve essere un Jedi per essere buono o importante. Inoltre Han incarna una tecnologia un po’ stracciona: con un pugno riavvia l’astronave. Nella seconda trilogia, tutto è perfetto e ferale. La simpatia fuori dalle righe del comandante del Millennium Falcon avrebbe stonato, gli autori avevano deciso di prendersi molto più sul serio.

Siccome a volte dormicchia anche il sommo Omero, lo sforzo meticoloso di ricongiungimento narrativo non è stato comunque completo e ci sono delle sbavature: Obi Wan dice di non aver mai avuto dei droidi, mentre ne aveva avuti, Luke chiede a Leila di parlargli di loro madre ma Leila non l’ha mai conosciuta e così via. Nessuno è perfetto.

Dove gli sforzi della produzione lucasiana producono risultati mediocri è invece nella rappresentazione della tecnologia militare. Le tattiche rappresentate nei film sono suicide rispetto alle armi che si usano. Per esempio, ne La battaglia dei cloni vediamo un urto frontale di fanti, senza protezione di veicoli corazzati o di artiglieria, pur in presenza di aviazione e artiglieria a lunghissimo raggio. Ne L’impero colpisce ancora le armate imperiali avanzano lentissimamente contro una risibile linea Maginot formata essenzialmente di soldati armati di fucili. Le battaglie nei cieli sono simili ai duelli dei caccia della seconda guerra mondiale, solo che in Guerre Stellari ci aspetteremmo di vedere sistemi contraerei ben più efficaci, evidentemente tralasciati per non ridurre la spettacolarità di talune situazioni.

In questo quadro di confusione, spicca la penosa tecnica militare dei Jedi che maneggiano un arma leggerissima come se si trattasse di un’enorme spada medievale. Possibile che in millenni di approfondimento della forza i Jedi non abbiano trovato nulla di più efficace? E non va meglio quando gli illuminati dalla forza si servono dei loro poteri per muovere oggetti, facendoli piombare sull’avversario che può così evitarli o respingerli. Basterebbe alterare il flusso sanguigno del duellante per fargli esplodere la testa o i polmoni, con meno fatica e più efficacia. Solo Darth Vader lo utilizza con i suoi generali, a dimostrazione che è davvero il più acuto di tutti.

Si tratta di concessioni alle necessità medievaleggianti del ruolo dei Jedi, che incarnano la volontà di Lucas di esaltare una morale e una filosofia politica profondamente reazionarie e che cozzano con l’immane e geniale sforzo di dipingere mondi e civiltà futuribili, creature aliene, astronavi, città sospese, in modo innovativo e fantasmagorico. Un ingegno che meritava di essere posto al servizio di ideali più nobili e moderni.

Matrix. Calci volanti, filosofia e rivoluzione

Nel 1999, anche se i fratelli Wachowski cominciarono a pensare alla trilogia già nel ’92, usciva un film che avrebbe rivoluzionato profondamente la cinematografia, tanto per la forma filmica (gli effetti speciali, le tecniche utilizzate) quanto per i contenuti proposti. Con Matrix la fantascienza ha fatto un passo in avanti, presentando un’interpretazione del reale profonda, potente, implacabile. Tecnicamente parlando gli effetti speciali servono a uno scopo: dopo Matrix non c’è più differenza tra disegno e ripresa: il realismo ingenuo si è allontanato per sempre dall’arte filmica. Ciò che si vede potrebbe o meno essere mai esistito davanti alla telecamera. Come sempre succede con una nuova forma artistica, essa rivoluziona i contenuti e insieme la forma di un’arte. Fornisce nuove vie per dire cose nuove e insieme esprimere concetti antichi.
Matrix è insieme un nuovo modo di fare cinema, ma anche un nuovo modo di vedere la realtà. Convergono in Matrix filoni assai diversi, dal fumetto, al cinema di arti marziali Ma la forma concettuale è anche quella del videogioco. Il tutto viene sezionato alla luce di una sorprendentemente vasta serie di riferimenti culturali, filosofici, scientifici, su cui predominano alcuni temi di fondo. Come le grandi opere d’arte, Matrix può essere fruita a ogni livello, dal puro piacere estetico alla visione di ciò che non appare immediatamente ai nostri occhi, la realtà. Alla base del successo, certo, c’è l’avvincente vicenda, la bravura dei protagonisti, la raffinatezza degli effetti speciali, la spettacolarità dei combattimenti di arti marziali. Ma soprattutto il de te fabula narratur filo conduttore della storia: gli uomini che vivono in catene siamo noi. Siamo vittime inconsapevoli di forze che non sappiamo nemmeno esistere.

Che cos’è Matrix?

L’essenza di Matrix è il controllo. Il controllo di chi ha il potere, le macchine, su chi non ne ha, gli uomini, da cui le macchine traggono l’energia:

MORPHEUS: What is the Matrix? Control…The Matrix is a computer-generated dreamworld built to keep us under control in order to change a human being into this [energy].

Il controllo si esprime attraverso la distorsione del reale. La verità viene nascosta alla vista tramite un mondo fantastico in cui sembra di avere rapporti con altri uomini mentre sono le cose, le macchine, a dettare legge:

MORPHEUS: Matrix is …the world that has been pulled over your eyes to blind you from the truth.
Neo: What truth?
MORPHEUS: That you are a slave, Neo. Like everyone else, you were born into bondage, kept inside a prison that you cannot smell, taste, or touch. A prison for your mind.

Matrix è dunque una gabbia, uno “zoo” come dice l’agente Smith. Evidentemente, perché Matrix funzioni, gli uomini devono credere che sia vera. Ma che succede se qualcuno non ci crede? Che le macchine devono fargli credere che la sua stessa mancanza di fiducia sia prevista. La ribellione, la lotta, il rifiuto, la scelta sono tutte apparenze. Ma è davvero così?. Lo stesso “architetto” (il progettista di Matrix) ammette che l’anomalia è un fatto e non è creata da loro. Ma allo stesso tempo emerge il tema dell’illusorietà del libero arbitrio. Ad ogni modo, le macchine vogliono dare l’impressione che sia tutto sotto controllo, tutto già scritto. E chi lo sa, forse è vero:

AGENT JONES: Then the informant is real.
AGENT SMITH: Does that surprise you? It was inevitable.

Come dire: è già tutto scritto, compreso il tradimento.

La struttura complessiva di Matrix è ovviamente quella della società moderna: le macchine sono i capitalisti, gli uomini i lavoratori e gli uomini liberati i rivoluzionari. Le “seppie” sono l’apparato repressivo dello Stato così come gli agenti. Proprio come succede in periodi normali nel capitalismo, gran parte degli uomini non è ancora pronta a essere liberata come nota Morpheus:

Our goal is to free the people from that system. The system is the enemy. However, some people are so hopelessly dependant on the system, so blissfully ignorant, that they will give their lives to protect it.

Le macchine/capitalisti possono sopravvivere e prosperare solo sull’ignoranza degli uomini.

Rispetto ai molti film in cui viene trattato il tema macchine versus uomini (si pensi a Terminator, ad esempio), Matrix ha una superiorità decisiva per una ragione precisa: le macchine non possono fare a meno degli uomini (mentre in Terminator, ad esempio, lo vogliono sterminare, non controllare), le macchine si nutrono di uomini. In questo modo, Matrix riesce ad evidenziare con estrema precisione il funzionamento del capitalismo: l’energia, la ricchezza è prodotta dall’uomo di cui le macchine, il capitale costante, vivono, come spiegava la teoria del valore degli economisti classici e di Marx. Inoltre, le macchine producono all’unico scopo di creare nuove macchine secondo lo schema denaro-merce-denaro, in una spirale senza senso e scopo se non l’aumento in sé.

Un altro aspetto decisivo di Matrix è che nessuno può spiegarla ad altri: l’unica esperienza che conta è quella diretta, non l’autorità.

MORPHEUS: I’m trying to free your mind, Neo, but all I can do is show you the door. You’re the one that has to step through.

D’altra parte Neo per molto tempo non crede a Morpheus e questo lo rende inefficace come combattente. Vi sono dunque due profili: le qualità oggettive del combattente (e del reale in genere) e la sua fiducia nelle proprie forze. L’oracolo ribatte sullo stesso concetto:

ORACLE: Sorry, kid. You got the gift but looks like you’re waiting for something.
NEO: What?
ORACLE: Your next life, maybe. Who knows. That’s how these things go.

Questo è insieme un tema galileiano (conta la verità non l’autorità) e di polemica antisensista, come spiegheremo in seguito.

Chi riesce a ribellarsi a Matrix? Chi ha dei problemi con il fatto di essere controllato. Neo è perfetto da questo punto di vista: ha sempre avuto problemi con l’autorità, tanto che il suo capo gli dice profeticamente: “You have a problem with authority, Mr. Anderson. You believe that you are special, that somehow the rules do not apply to you”. E al suo mentore Morpheus, the One spiega. “I don’t like the idea that I‘m not in control of my life”. Ma tutto questo non basta. La ribellione spontanea contro qualcosa che si percepisce senza sapere bene cosa sia, non è sufficiente. Neo, presagiva che qualcosa non andava ma era lungi dall’immaginare la realtà e, in un primo tempo, non riesce a capacitarsene, la rifiuta. Occorre l’aiuto di Morpheus, che ha un ruolo maieutico e antispontaneista. E una volta compresa la realtà di Matrix occorre trarne tutte le conseguenze:

MORPHEUS: The Matrix is a system, Neo, and that system is our enemy. When you look around, what do you see? Businessmen, lawyers, students. People. Everywhere you look, there are people. Somewhere else, somewhere in the future they may be human beings but here these people are a part of the system. That makes every one of our enemy…It is important to understand that if you are not one of us, you are one of them.

Dunque non c’è possibilità di mediazione, di accordo. La lotta è alla morte. E questo contrasto insanabile lo si vede nel modo stesso con cui Neo è condotto fuori da Matrix: pillola rossa e pillola blu, destra o sinistra, menzogna o verità.

Lo sviluppo del mondo di Matrix

MORPHEUS: Through the blinding inebriation of hubris, we marveled at our magnificence as we gave birth to A.I.

L’uomo è caduto preda delle macchine. Dopo aver creato l’intelligenza artificiale, con la sua “sinistra coscienza”, l’uomo cercò di sbarazzarsene muovendogli guerra (luddismo?), ma perse su tutta la linea. Le macchine cominciarono a estrarre energia da lui, rendendolo schiavo. Ma la schiavitù senza controllo non poteva esistere. La creazione di un mondo fittizio fu la risposta a questo problema. Da subito, per quello che si può capire nei primi due film, Matrix vive attraverso dei cicli. In ogni ciclo vi è un’anomalia che riesce a ribellarsi alle macchine:

MORPHEUS: When the Matrix was first built there was a man born inside that had the ability to change what he wanted, to remake the Matrix as he saw fit. It was this man that freed the first of us and taught us the secret of the war; control the Matrix and you control the future.

Ma non è l’eterno ritorno di Nietzsche o della religione indiana. Vi è invece un vero sviluppo. Le macchine imparano dall’uomo:

AGENT SMITH: Did you know that the first Matrix was designed to be a perfect human world? Where none suffered, where everyone would be happy. It was a disaster. No one would accept the program. Entire crops were lost.

E nella prima versione della sceneggiatura il traditore confermava:

CYPHER I’m going to let you in on a little secret here. Now don’t tell him I told you this, but this ain’t the first time Morpheus thought he found the One…
NEO: How many were there?
CYPHER: Five. Since I’ve been here.

Al che, dopo aver saputo di questi cicli, Neo ne chiedeva conto a Morpheus il quale ammetteva di aver peccato di ottimismo, vedendo l’eletto dove non c’era sostituendo il proprio livello di coscienza a quello dei soggetti che liberava. Matrix si evolve, dunque, e riesce a incanalare la rabbia e la rivolta dell’uomo, servendosene per migliorarsi.

Che cos’è reale? La teoria matrixiana della conoscenza

A prima vista Matrix potrebbe sembrare un’opera scettica: i sensi ingannano, la realtà è illusione. Ma questa sarebbe un’interpretazione assai superficiale. L’essenza della gnoseologia matrixiana è invece che la realtà esiste al di fuori dell’uomo, ma questa realtà è rovesciata rispetto a quella di cui l’uomo ha immediata consapevolezza. È dunque un attacco al sensismo, alla immediatezza gnoseologica dei sensi. Questo lo si vede più volte. Ad esempio Morpheus, quando libera Neo lo accoglie con “welcome to the real world” (“benvenuto nel mondo vero”). E gli spiegherà poco dopo:

MORPHEUS: What is real? How do you define real? If you’re talking about your senses, what you feel, taste, smell, or see, then all you’re talking about are electrical signals interpreted by your brain.

Allo stesso modo, Cypher e Trinity hanno una discussione sul tema:

CYPHER: Yes. You see, the truth is, Trinity, that we humans have a place in the future. But it’s not here. It’s in the Matrix.
TRINITY: The Matrix isn’t real!
CYPHER: Oh, I disagree, Trinity. I disagree. I think the Matrix is more real than this world. I mean, all I do is pull a plug here. But there, you watch a man die.

Nel complesso vi è dunque una vera e propria teoria della alienazione, della conoscenza reificata, dello scambiare oggetti seppure avanzati (la programmazione di Matrix) per uomini e uomini per oggetti. Questo è appunto la concezione materialistica della storia. Ma vi è un altro aspetto per cui la teoria della conoscenza di Matrix è particolarmente potente. In questo mondo la conoscenza non basta a rendere l’uomo libero. Occorre che ci sia una scelta cosciente per il conflitto con il reale. Non abbiamo dunque di fronte un realismo passivo, che si limita a constatare la bruttezza della realtà, ma un materialismo militante, attivo, che va oltre la semplice e inutile conoscenza per l’azione. Secondo la nota formula: i filosofi hanno solo interpretato la realtà, si tratta di cambiarla. Questo è particolarmente presente nei dialoghi tra Morpheus e Neo. Morpheus insiste più volte sul concetto che nessuno può liberare un altro uomo senza che questo prenda coscienza da solo della realtà e agisca.

Il rapporto tra conoscenza delle leggi obiettive di funzionamento di Matrix e scelte degli uomini in merito alla propria vita introduce il tema del libero arbitrio. Questo aspetto è poco approfondito in Matrix, dove il tessuto ontologico è più semplice (uomini e macchine, lotta per la liberazione), mentre è sviscerato in Matrix reloaded. I tre dialoghi fondamentali: Neo e l’oracolo, i tre e Merovingio, Neo e l’ingegnere fondatore di Matrix, sono incentrati esattamente su questo punto: la conoscenza è potere, la scelta è un’illusione. Naturalmente, e in questo Neo, con tutte le sue capacità acrobatiche, si mostra davvero un ingenuo neofita, le macchine tentano di manipolare la realtà. Le macchine vorrebbero che gli uomini credessero che tutto è sotto controllo, che tutto è previsto. Che i cicli di lotte (le sei Matrix e le sei Zion) sono addirittura creati da loro allo scopo di incanalare l’imperfezione umana di cui non si possono liberare. Il libero arbitrio, come spiega Merovingio, non è dunque che un’illusione utile per tenere occupati gli uomini mentre vengono sfruttati. Neo crede a questa idea, ed è solo l’amore per Trinity che lo spinge a ribellarsi a quello che le macchine gli indicano come suo destino ineluttabile. Morpheus invece crede che lo scopo che loro si danno sia reale e non eterodiretto, ma sbaglia nel modo con cui lo crede. Il loro alleato “sin dal principio”, l’oracolo, è addirittura la madre di Matrix. Ma sebbene Neo sia pessimista, il padre e la madre di Matrix gli insegnano una cosa vera: la rivoluzione nasce sempre dall’alto, nasce dalla spaccatura al vertice della società, riflesso dell’insopportabile contraddizione di classe e dunque segnale dell’inevitabilità dell’insurrezione stessa. Ad ogni modo Matrix cerca di incanalare un istinto insopprimibile; e finora, con successo.

I personaggi

I tre
Il cuore di Matrix è costituito dal trio Morpheus-Neo-Trinity. Le caratteristiche “trinitarie” sono ovvie persino nel nome. Ma i fratelli Wachowski non vogliono eccedere nei riferimenti a una specifica religione. Così ecco che Neo e Morpheus sono nomi greci. Neo, Trinity e Morpheus costituiscono un’unità organica. Neo è l’uno (the one in inglese) ed è anche una figura filiale, mentre il nome della sua donna non lascia adito a dubbi. Morpheus è un padre per i suoi uomini (come dice Tank), e il rapporto Neo-Morpheus è anche di maestro e allievo, nonché di profeta e messia. Non a caso, in un’intervista Lawrence Fishburn dice, rispondendo a una domanda sul suo personaggio:

“John the Baptist? Well obviously, the Baptist is one of the elements, one of the things that’s inside of him. But the other thing that is inside of him is the mythological thing, the idea of dream. So it was really about embracing all of that and anything else that was valuable, whether it was somebody specific some specific story, anything. I don’t know.”

Morpheus ha una fede incrollabile, non tanto nel destino (come riporta la prima sceneggiatura di Matrix) quanto nel fatto che riuscirà a trovare il liberatore, l’eletto. Ha ragione, o forse no. La sua fiducia incrollabile lo ha condotto a fare errori di soggettivismo in passato. E nessuno sa se finalmente ha imparato. In Matrix, Morpheus è il capo di una banda di terroristi e spiega a Neo che in quanto liberatori loro hanno il diritto e il dovere di non concedere tregua, di non avere pietà per nessuno perché chiunque può essere un agente. In Matrix reloaded è il capo della frazione estrema degli uomini liberi. Per tutto questo è considerato dalle macchine l’uomo più pericoloso del mondo. Nel suo nome c’è l’essenza della paradossalità del suo ruolo: deve liberare dal sogno, dall’illusione, ma deve insegnare allo stesso tempo quanto sia complesso comprendere il reale. Morpheus riconosce di essere fallibile quando, vedendo distruggere la sua nave, sospira “avevo un sogno. Ma si è allontanato”.

Trinity è l’allievo più fedele e dotato di Morpheus, almeno fino all’arrivo di Neo. Il suo ruolo è in fondo semplice, da quando l’oracolo le ha predetto che si innamorerà dell’eletto. E Neo è di gran lunga il soggetto più affascinante nei paraggi.

Neo è uno qualunque, ma è l’eletto, the one. La trasformazione è in fondo semplice (da Neo a One basta cambiare una lettera), eppure complessa. L’unica cosa che lo convincerà delle sue doti è sempre l’amore.

Switch, Apoc e Mouse
Sono l’equipaggio di Morpheus, a cui rispondono con una dedizione totale. Muoiono traditi dal giuda cibernetico. Mouse ha l’onore di introdurre il problema del rapporto realtà-sensi sotto un ulteriore profilo: come facciamo a sapere quale fosse il vero sapore di ciò che Matrix ci spaccia per cibo? Inoltre, proponendo a Neo un incontro a luci rosse con un programma, sottolinea ancora una volta che cosa distingue l’uomo dalle macchine: l’amore e il sesso.

Tank, Dozer e Link
Sono uomini veri. Nati a Zion. Dunque non possono entrare in Matrix. Sono solo operatori. Questo pone un interessante tema: gli uomini “vecchia maniera” non possono combattere Matrix sul suo terreno. Solo i liberati, uomini una volta connessi a Matrix, possono liberare tutta l’umanità.

L’oracolo
Neo lo chiama oracolo (minuscolo) prima di andarci, e Oracolo dopo averlo incontrato. Evidentemente ha un potere sugli uomini. Eppure è un programma (nonché, ovviamente, la omonima marca di software). Morpheus la presenta così:

MORPHEUS: When he died, the Oracle prophesied his return and envisioned an end to the war and freedom for our people. That is why there are those of us that have spent our entire lives searching the Matrix, looking for him.

MORPHEUS:…She’s very old. She’s been with us since the beginning.
NEO: The beginning?
MORPHEUS: Of the Resistance.
NEO: And she knows what? Everything?
MORPHEUS: She would say she knows enough.
NEO: How does she know?
MORPHEUS: She is a true psychic. She sees beyond the relativity of time. For her there is no past, present or future. There is only what is.
NEO: And she’s never wrong.
MORPHEUS: Don’t think of it in terms of right and wrong. She is a guide, Neo. She can help you find the path.

Ma di che tipo di guida si tratta? In Matrix reloaded apprendiamo che è un programma, e addirittura la madre di Matrix, che riuscì a salvare dall’anomalia studiando la psiche umana. E allora, come fidarsi di lei? Difficile a dirsi. Lei dal canto suo, dichiara di avere piena fiducia in Neo. Ma allora, Neo è il salvatore o uno qualsiasi, o addirittura un veicolo di sottomissione dell’umanità? Probabilmente tutto questo. Sociologicamente parlando, l’oracolo sembrerebbe rappresentare la borghesia illuminata che vuole un accordo con la classe sfruttata (ha fiducia in Neo) e che per questo ha dei dissidi con il resto dell’establishment

L’agente Smith
La punta di diamante dell’apparato repressivo di Matrix. Spietato, senza cuore. Un vero Terminator, anzi peggio: non esistendo fisicamente non può neppure essere ucciso, talché persino l’eletto ottiene, battendolo, l’unico effetto di trasformarlo in una scheggia impazzita, una specie di cellula tumorale. Eppure, questo cane da guardia del sistema (di cui ha tutte le chiavi, come dice Morpheus) non ama affatto Matrix. Anzi, lo odia, ma non può farci nulla. Vuole eliminare i ribelli come mezzo per andarsene. Quando cattura Morpheus comincia con il beatificare Matrix e la sua perfezione ma finisce per attaccare il sistema:

AGENT SMITH: I hate this place. This zoo. This prison. This reality, whatever you want to call it, I can’t stand it any longer. It’s the smell, if there is such a thing. I feel saturated by it. I can taste your stink and every time I do, I fear that I’ve somehow been infected by it…I must get out of here, I must get free.

Dunque nemmeno l’apparato repressivo di Matrix è libero. Anzi, Smith per ammettere questo con Morpheus (che, ricordiamo, è considerato il più pericoloso uomo in circolazione), si toglie l’auricolare ma si riprende (“Agent Smith recovers, replacing his ear-piece”) solo che poco dopo, quando si sostituisce all’anziano della metropolitana per combattere Neo la sceneggiatura riporta: “Agent Smith stares, his face twisted with hate. He will never be free of the Matrix.”

In Matrix reloaded Smith è come impazzito. Che cosa diventa? Ancora non è del tutto chiaro. Di sicuro, non era pronto a essere liberato. Così, pur libero, continua ad agire per il vecchio padrone. Non ha altro scopo che eliminare gli scopi altrui, non ha libertà se non nel togliere la libertà altrui. Solo il terzo film chiarirà il destino di Smith.

Questa figura contiene in sé anche un’altra citazione. Nota l’oracolo che i programmi migliori sono quelli che non si vedono. Che cos’è questa se non la mano invisibile di Adam Smith?, il riconoscimento che il mercato, il dominio dell’uomo sull’uomo non può essere pianificato, visibile? E per l’appunto l’agente si presenta come “A Smith” (cioè uno Smith, uno qualsiasi, ma insieme Agent Smith e infine, appunto, Adam Smith, il teorico della mano invisibile).

Cypher
È il traditore, Giuda, Gano, figura chiave di ogni vicenda eroica. È l’infame che si vende per 30 denari (che per giunta sa essere falsi), perché pensa che l’uomo non ce la farà mai contro il potere. Vuole rientrare nei ranghi e quando spiega a Trinity il suo piano le dice: “I’ll be fat and rich and I won’t remember a goddamn thing. It’s the American dream”. Ancor più esplicitamente, gli autori vogliono far capire con chi ce l’anno: Cypher viene chiamato Reagan dalle macchine e all’agente Smith chiede di essere un attore (Reagan appunto…). Come succede in Matrix, il suo nome è una sintesi di versi aspetti. È senz’altro l’abbreviazione di Lucifero ma cyber.

Merovingio
Qual è il ruolo di Merovingio? Nel Medioevo i Merovingi furono la dinastia immediatamente precedente a Carlo Magno, l’apice dell’impero. Dunque sembrerebbero rappresentare la versione precedente di Matrix. Ma sono nel contempo la frazione sconfitta del programma, cioè della borghesia (e Merovingio parla proprio di se stesso come annoiato bourgeois). La frazione sconfitta della borghesia a livello mondiale è ovviamente la Francia. La borghesia è decadente, nei suoi rapporti umani, nella visione che ha del sesso. Concepisce ogni rapporto sotto forma di controllo. Eppure la moglie dice di lui che Merovingio una volta era come Neo mentre ora è “noioso, bourgeois, prevedibile”.

Persefone
Chi è Persefone? Nella mitologia greca Persefone viveva per metà sotto terra col marito Ade e per metà sopra la terra con la madre Demetra. Si tratta dunque di una figura a metà strada. Un programma che aiuta gli uomini (o forse un uomo che aiuta le macchine). Nello stesso tempo dà alla coppia Neo-Trinity una lezione fondamentale: costringendo Neo a baciarla e Trinity ad assistere (proprio di fronte a uno specchio) li rende coscienti dell’importanza che la loro relazione ha non solo per loro ma per tutti. Introduce inoltre il tema dell’amore come imprevedibilità. La sua gelosia permette al trio di raggiungere i propri obiettivi.

Gli scagnozzi di Merovingio sono invece spiriti, fantasmi, residui di vecchie ideologie con cui le macchine spaventavano e che ora non servono più.

Influenze

Matrix è, oltre a tutto il resto, un vero e proprio compendio filosofico da gustare al cinema. I suoi creatori l’hanno definito “il lavandino di cucina” (in italiano: la pattumiera) per la quantità di riferimenti che vi hanno inserito. Dall’Odissea alla Bibbia, dallo Zen a Marx, c’è davvero di tutto. Tante e tali sono le citazioni che i fratelli Wachowski dicono agli spettatori “non riuscirete mai a trovarli tutti”. Per questo i film hanno sollevato critiche e commenti di filosofi, scienziati, intellettuali Eppure quando il primo Matrix è uscito, pochi lo avevano preso sul serio, pochi avevano intuito che sotto il cartone animato c’era dell’altro.

Influenze religiose
Le citazioni religiose sono state enfatizzate da molti commentatori. Ma a ben guardare si tratta di una lunga serie di citazioni testuali, estemporanee. Neo, certo, è una figura messianica, salvifica, mentre Morpheus è un profeta. Con Trinity costituiscono, appunto, la sacra famiglia, anche se il rapporto tra il figlio e lo spirito santo appare un tantino troppo carnale…Inoltre, gli uomini, come i primi cristiani, vivono in catacombe, ecc.
Ma nel complesso, si tratta di una visione sempre immanente e si ha il netto sospetto che nessuno parli mai di Dio perché c’è coscienza che sarebbe un’invenzione delle macchine. Negli Animatrix storici poi, la religione come viatico per le guerre è ben documentata.

Ad ogni modo, i riferimenti spicci a una qualche religione, come detto, sono molti. L’impiegato della Fedex che consegna il telefono a Neo è un annunciatore, un novello arcangelo Gabriele. Cypher, la spia, il Giuda, è anche il diavolo. La nave di Morpheus si chiama Nabucodonosor, il nome del re mesopotamico che conquistò Israele. Neo è mancino, il che ne dovrebbe fare una figura satanica, ma allo stesso tempo resuscita e ascende al cielo. Sotto il profilo strettamente dottrinario, Neo dà la conoscenza non la libertà e questo ne dovrebbe fare una divinità gnostica. Quanto a Morpheus, nota in un’intervista Laurence Fishburne:

“There’s a lot of things, and I think the major thing is that in crafting their story and structuring their story, the Wachowski brothers relied heavily on Greek mythology and primarily the old myths and the hero’s journey, the reluctant messiah story, which is one of the oldest stories and has been with us in every culture, in every clime in some way or form. And they basically put it in a modern context and I think that’s the thing that everybody connected to. There are also religious connotations. Yes there are.”

E sulla Nabucodonosor si legge Mark III No. 11 (ovvero: Marco, versetto 3.11) che in inglese suona così: “Whenever the unclean spirits saw him, they fell down before him and shouted, ‘You are the Son of God!’”. Piuttosto chiaro.

In Matrix Reloaded quando l’agente Smith esce dalla macchina all’inizio del film sul distintivo leggiamo IS 5416, ovvero Isaiah 54:16 che nella traduzione inglese suona così: “Behold, I have created the smith that bloweth the coals in the fire, and that bringeth forth an instrument for his work; and I have
created the waster to destroy”, Smith, what else…

Qui e la non è difficile trovare riferimenti allo Zen e al sufismo, al profetismo ebraico e al buddismo. Insomma, Matrix è un put porri di religioni e con ciò non è la difesa di nessuna. Alla fine è l’uomo che deve combattere le macchine, profezia o non profezia.

Influenze filosofiche
In Matrix si possono trovare riferimenti a diverse teorie filosofiche. Questi riferimenti riguardano fondamentalmente il rapporto tra mondo vero e mondo fittizio. La verità è altra rispetto a quella che ci appare, ne è anzi un totale rovesciamento. Ma Matrix non è il mondo delle idee di Platone, non è la perfezione, ma una falsa imperfezione e una normalità irreale. Se mai c’è un riferimento al mito della caverna. Ecco che allora occorre dubitare di tutto. Come insegnava Cartesio, i sensi spesso ingannano. Chi mi assicura che ciò che vedo esista, oltre che nella mia testa come idea, anche nella realtà? Neo, come Cartesio, è chiamato a mettere in dubbio ogni cosa per prendere atto della propria esistenza come soggetto pensante; e il fatto di esistere come soggetto pensante è l’unica verità certa di cui egli disponga in partenza. Ma le caratteristiche messianiche e di superuomo di Neo lo avvicina allo Zarathustra nietzscheano. Con una differenza, però, l’eletto non si serve della sua superiore potenza per soggiogare gli altri, anzi è il primo a dubitare sempre delle proprie capacità.

La problematica del dubbio cartesiano è espresso con estrema chiarezza nel dialogo tra Morpheus e Neo:

NEO: You ever have the feeling that you’re not sure if you’re awake or still dreaming?
MORPHEUS: Have you ever had a dream, Neo, that you were so sure was real?
…What if you were unable to wake from that dream, Neo? How would you know the difference between the dream world and the real world?

Ma il dubbio iperbolico di Cartesio non deve condurre allo scetticismo. La realtà esiste, come si vede nella scena in cui l’agente Smith inserisce un rilevatore “vivo” dentro Neo e che è al confine tra sogno e realtà ma che si conclude in senso chiaramente realista: Trinity lo trova e Neo riconosce “ma allora è vero”.

Matrix è anche ricco di citazioni dalle teorie postmoderniste di Braudrillard. In una versione non definitiva della sceneggiatura, la citazione della concezione postmodernista era esplicita (d’altra parte Neo nasconde il dischetto per il suo amico in un libro di Braudillard): Morpheus pronunciando la famosa frase “Welcome to the desert of the real” citava esplicitamente Braudillard in persona. D’altra parte c’è da dire che lo stesso Braudillard nelle sue opere ricorre spesso alle storie di Philip K. Dick, un autore di fantascienza che ha fortemente influenzato i fratelli Wachowski. Braudillard non sembra aver gradito la citazione:

“In an interview with The New York Times last year, Mr. Baudrillard said that the movie’s use of his work «stemmed mostly from misunderstandings.» But this time, the Wachowskis have found a more willing philosophical accomplice. Dr. West appears (minus his trademark glasses) as a wise councillor of Zion, the last free human city on earth. He delivers only one line, but it’s a doozy: «Comprehension is not requisite for cooperation.» Those words have already been spotted on T-shirts in Los Angeles.”

Infine, c’è un riferimento esplicito al marxismo:

“For Morpheus, as for Marx, the ruling system is the enemy, as are all those who live within it and by their silence support it. Violence against anyone complicit with the system becomes justified on those grounds: Neo and Trinity’s vicious slaughter of security guards with «guns, lots of guns,» is but one example. A revolution is by its nature violent, and terrorism can be justified in the name of freedom.” (L. Johnson)

Alla fine, il messaggio rivoluzionario del film è evidente nella sua conclusione. Il monologo finale di Neo non lascia adito a dubbi:

“I know you’re out there. I can feel you now. I know that you’re afraid. You’re afraid of us, you’re afraid of change. I don’t know the future. I didn’t come here to tell you how this is going to end. I came here to tell you how it’s going to begin. I’m going to hang up this phone, and then I’m going to show these people what you don’t want them to see. I’m going to show them a world without you, a world without rules or controls, without borders or boundaries. A world where anything is possible. Where we go from there is a choice I leave to you.”

Vi è poi un riferimento alla teoria dell’intelligenza artificiale che sembra validata. Senza di essa il film non esisterebbe: le macchine diventano il cattivo prendendo coscienza.

Influenze musicali e artistiche
Esiste un riferimento letterario esplicito in Matrix ad “Alice nel paese delle meraviglie” (“follow the white rabbit ”, la tana del bianconiglio, ecc.), ma anche al “mago di Oz” (citato da Cypher quando avverte Neo di quello che vedrà uscendo da Matrix: “Buckle your seat belt Dorothy, ‘cause Kansas is about to go bye, bye!”). Alice rappresenta la meraviglia, la logica rovesciata, il mago di Oz la patacca, il mostro che alla fine si rivela un nanetto. In Matrix reloaded nella scena dell’autostrada su un veicolo leggiamo “Big Endian
Eggs”, un riferimento ai Viaggi di Gulliver: “The Lilliputians, being very small, had correspondingly small political problems. The Big-Endian and Little-Endian parties debated over whether soft-boiled eggs should be opened at the big end or the little end”.

Scontati i riferimenti a 1984 di Orwell, non vale neppure la pena parlarne.

Gli autori hanno scelto, a chiusura dei film, le canzoni di un gruppo radicale il cui nome è una sorta di sintesi intellettuale della trilogia stessa: Rage against the machine.

Vi sono diverse citazioni del periodo e della cultura dark (soprattutto nella discoteca dove Neo conosce Trinity, ma in fondo i protagonisti sono sempre vestiti di pelle nera). Vi è poi una citazione esplicita dei Depeche Mode. L’amico di Neo dice ringraziandolo: “Hallelujah! You are my savior, man! My own personal Jesus Christ!”.

In Matrix reloaded è stato scelto dai registi, per fare un consigliere di Zion, Cornell West, un intellettuale socialista nero.
In generale il consiglio rappresenta al meglio la multietnicità di Zion. È chiaramente una coalizione arcobaleno seppure afrocentrica, come si vede dai riti e dalla musica, dalle danze ecc.

Come detto, la trilogia è anche un omaggio alla cultura cinematrografica di Hong Kong. Le scene di combattimento sono state ideate e realizzate grazie a un team di Hong Kong, Neo e Morpheus spesso citano note scene di film di Bruce Lee (ad esempio quando Neo “invita” l’agente Smith ad attaccarlo). Nel complesso, sebbene all’inizio Neo impari il Ju-jitsu e il Savate, i combattimenti sono basati su stili cinesi classici, anche se in Matrix reloaded, dove le scene di combattimento sono enormemente dilatate, compaiono armi giapponesi (una katana), e c’è spazio anche per il Kali filippino.

Influenze di film precedenti
Sono ovviamente innumerevoli. Si va da Metropolis, a They Live di Carpenter. Ma c’è anche The Truman Show, Blade Runner, Guerre stellari, Total Recall, e ogni genere di film su realtà fittizie e su scontri uomo-macchina. Ma pur prendendo un po’ da tutti questi, ne è una sintesi assolutamente superiore. L’eletto in Guerre stellari è uno che sa manovrare la forza…, cioè muove gli oggetti e sa usare bene la spada laser. In Terminator, le macchine riproducono uomini-robot sempre più simili agli originali, negli altri film citati il protagonista deve scoprire che sta vivendo in un mondo fasullo e deve lottare per liberarsi. Ma in tutti questi film manca un aspetto chiave: l’organica necessità del conflitto. In fondo, nessuno sa di quale energia si servissero le macchine in Terminator, né perché l’imperatore di Guerre Stellari sia così cattivo. Ma qui il rapporto tra i due poli della realtà: schiavi e macchine, è simbiotico, ed inconfutabilmente conflittuale.

Influenze politiche
L’influenza del marxismo è piuttosto chiara in Matrix. Gli uomini come schiavi e così via. E l’influenza si evolve. Nel primo è decisivo l’aspetto della violenza, un’interpretazione quasi da “azione diretta” del marxismo: i nostri eroi sono una banda di terroristi, del tutto giustificati nella loro spietatezza e noncuranza della vita altrui perché “se non sei uno di noi, sei uno di loro”. Nel secondo, anche per l’essenza dialettica della storia, la concezione del marxismo appare più matura. Ma al fondo si tratta sempre di conflitto sociale tra sfruttati e loro aguzzini.

C’è anche qualche riferimento all’ecologismo, come si vede quando l’agente Smith rimprovera agli uomini di distruggere l’ambiente in cui vivono come un virus o quando Mouse ricorda che oggi “sa tutto di pollo”.

Lo sviluppo dei temi di Matrix in Matrix reloaded

Il tema di fondo di Matrix è il controllo. Chi controlla (le macchine) ha il potere e costringe gli altri (gli uomini) a obbedire, ad agire conformemente allo scopo fornito. Senza conoscenza non c’è scopo ma solo una falsa idea di libertà fornita essa stessa dall’alto. In Matrix queste idee sono sviluppate con linearità. Nel secondo le cose si complicano. Non è più chiaro chi controlla chi e come.

In Matrix si trattava di impostare il problema. Le macchine controllano l’uomo. I prodotti dell’uomo sono divenuti i suoi padroni e incubi. Da controllore l’uomo è divenuto schiavo e vive in un mondo immaginario fatto per controllarlo, con lo scopo di massimizzare la produzione. Ci sono così le macchine, come un monolite crudele, da una parte, e un pugno di eroi dall’altro. Matrix è lineare, quasi meccanica; controlla lo spettatore, lo prende per mano e lo costringe a capire. Matrix reloaded è dialettico, complesso, problematico. Lo spettatore sembra avere una certa scelta, la libertà di interpretazione. Così in fondo gli stessi autori conducono lo spettatore dal controllo alla scelta. Si scopre un mondo assai più complesso e sfaccettato. In Matrix le macchine sono cattive in sé, e di conseguenza gli uomini sono quasi luddisti. Qui vediamo macchine sotto il controllo dell’uomo. Ecco che si esce dalla reificazione. Le cose non sono cattive. È il rapporto di subordinazione che rende le macchine aguzzini dell’uomo. Esiste un uso non capitalistico delle macchine. Allo stesso tempo, il controllo che le macchine sembrano avere sull’uomo è assai più profondo e raffinato di quanto poteva sembrare. L’oracolo, l’eletto, Zion, sembrano tutti meccanismi di controllo anziché i contendenti della spietatezza artificiale delle macchine.

Il mondo delle macchine e dei programmi appare ben più variegato. Vi sono “programmi che craccano programmi” come nota Neo, vi è cioè una lotta interna al sistema sul da farsi. Che questo stia a dimostrare che sono disperati, come ritiene Morpheus commentando la trivellazione, o meno, fatto sta che, come insegnano due secoli di lotte tra operai e capitalisti, i germi di una stagione rivoluzionaria compaiono sempre al vertice della società. Le spaccature nella classe dominante segnalano l’imminenza della rivolta.

Rimane il fatto che, dopo aver sentito Neo e gli altri discutere con i capi del mondo delle macchine (tra cui il padre e la madre di Matrix), rimaniamo col dubbio: i programmi dominano davvero Zion? O mentono per deprimere l’eletto?

Teoreticamente parlando, Matrix reloaded approfondisce il tema del libero arbitrio. La scelta, alla prova dei fatti, non esiste. Al massimo l’uomo può essere consapevole del perché ha fatto una scelta che era obbligata. E questo vale anche per Neo, l’eletto. Questa posizione filosofica ricorda, naturalmente, la famosa massima di Engels: la libertà non è che la presa di coscienza della necessità.

Molti critici hanno attaccato le parti “filosofiche” di Matrix reloaded e i troppi combattimenti. Infatti, i discorsi filosofici in Matrix reloaded sono insistiti e assai densi, condensati in pochi spazi inframmezzati da scene d’azione dilatate ed esagerate. Il film è dunque meno organico, più contrappuntistico. Ma in questo sviluppo è da vedersi il senso dello sviluppo del conflitto che anima la storia: uomini e macchine sono arrivati ai ferri corti. Inoltre, questa maggior complessità sembra come rappresentare il capitalismo al massimo grado di sviluppo, a maggior dimostrazione che il luddismo non è un’alternativa.

Nel secondo film della trilogia si vede anche Zion. Zion è rappresentata come una grossa fabbrica abitata da una popolazione multietnica e retta da un regime estremamente democratico. In particolar modo, è sottolineato più e più volte l’aspetto di subordinazione del potere militare a quello politico fino alla vera e propria umiliazione del capo militare a cui un consigliere dice “la comprensione non è un requisito per la collaborazione”. I militari dunque sono sottomessi al potere politico che peraltro si esercita assai democraticamente. Uomini e donne, bianchi e neri sono tutti uniti nello scopo comune. Non si ravvisano distinzioni di classe. I consiglieri, un po’ anziani (quasi una gerusia o un senato si direbbe) vivono però come tutti gli altri uomini e accettano le critiche della “base” senza problemi.
In questo quadro qual è il ruolo dei tre? In Matrix si parlava di Zion, ma si vedeva agire solo una ridotta squadra di arditi. In Matrix reloaded questa squadra è posta in un nuovo contesto: è la corrente radicale, rivoluzionaria di un’organizzazione di massa. La selva di pugni chiusi che saluta Morpheus basta a chiarire di che tipo di organizzazione si tratti (eppure sono solo le prime file ad alzare il pugno, a dimostrazione che le posizioni rivoluzionarie sono comunque ancora minoritarie, seppure bene accolte). In generale Zion è un’organizzazione sana. Lo si vede da molti particolari: la minoranza non viene schiacciata ma può anzi arringare la folla. Inoltre, anche i rapporti tra gli uomini sembrano improntati alla schiettezza e alla fraternità. Certo ci sono molti disagi (in fondo la vita dentro Matrix è assai più facile) e paura per l’attacco delle macchine. L’estremo e sano collettivismo che anima Zion lo si vede al meglio nel ballo, un rito collettivo altamente sessualizzato. È un’orgia dove tutti si ritrovano, anche se non fisicamente (Neo e Trinity si appartano eppure sono lì).

Allo stesso tempo, Zion ha degli aspetti fittizi. La scena del cucchiaio potrebbe rivelarsi decisiva in questo senso. In Matrix Neo capiva grazie ad un ragazzino, che la realtà di Matrix “non esiste” e che dunque la può modificare a suo piacimento. In Matrix reloaded il cucchiaio è nel mondo “vero”, a Zion. Ma allora anche Zion è un pezzo di Matrix? Quando Neo alla fine del film dice “è cambiato qualcosa” e riesce a usare i suoi poteri contro le macchine e non più solo contro i programmi, ci rivela qualcosa sulla esistenza di un altro mondo falso? Zion è essa stessa governata da un mainframe, però suppostamene “buono”. E d’altra parte negli Animatrix storici, dove, per inciso, le macchine sono i buoni, queste scappano in una loro città che si chiama 01 (cioè, di nuovo, Zion). In genere, da questi cortometraggi emerge che nel corso della storia i cattivi sembrano essere stati gli uomini, che hanno attaccato per primi e che hanno schiavizzato per secoli le macchine.

Riferimenti sparsi

Matrix costringe a un nuovo modo di vedere i film. Costringe all’attenzione continua. Emergono riferimenti ad ogni nuova visione.Ai fratelli Wachowski piace giocare e i film sono pieni di trucchi linguistici, anagrammi, riferimenti nascosti. Il tutto è ben sintetizzato dal nome del protagonista. Il signor Anderson si fa chiamare Neo, nuovo, ma anche neo cioè imperfezione. Ma è anche the One (cioè Neo con una semplice traslitterazione). Si pensi al posto dove lavora Neo: Metacortex, ovvero al di là della corteccia cerebrale. Il suo capo si chiama Rhineheart (cuore di rinoceronte, cioè insensibile, senza cuore, come tutti i capi), e così via.

Come detto, gli autori della trilogia sfidano il pubblico a trovare tutti i riferimenti che hanno infilato nei loro film. Qui diamo una prima risposta alla sfida dei fratelli Wachowski:
– nell’atrio del palazzo dell’oracolo siede un vecchio cieco assai scuro (un “moro”) straordinariamente simile a Marx che saluta Morpheus;
– Zion è anche Troia assediata dagli Achei; con tanto di Cassandra e di cavallo di Troia;
– in Matrix Reloaded si vedono Hitler e i due Bush quando si parla di barbarie.

Ironia
Sebbene le doti dell’eletto possano sembrare esagerate, non lo sono se considerate nel contesto del film. Gli stessi protagonisti ci scherzano:

Morpheus (asking about Neo): “Where’s he now?”
Link: “He’s doing the Superman thing”

Che è un ulteriore riferimento ai fumetti di supereroi.

Amore e politica
L’amore è ciò che distingue l’uomo dalle macchine. È l’imprevedibile, l’imponderabile. In Matrix l’amore di Neo e Trinity salva Morpheus e quello di Trinity salva Neo. Nel secondo Neo restituisce il favore. L’amore è quello che le macchine non si aspettano. Ma in fondo, se Cipher tradisce è proprio perché Trinity tradisce il suo amore. Ancora una volta, la connessione appare strettissima. L’oracolo stesso riconosce questo tema dicendo che essere innamorati è come essere l’eletto: lo sai solo tu. L’unica esperienza che conta è quella diretta.

Numerologia
Domina il numero 6, il numero satanico per eccellenza, a volte come combinazione di altri numeri (soprattutto 101 e 303). La stanza dell’albergo dove Morpheus incontra Neo è la numero 1313; lo stesso vale per l’uscita da cui Neo fugge: “TANK: I got a patch on an old exit. Wabash and Lake. A hotel. Room 303” e l’oracolo vive nella stanza 303. La stanza dove sta Neo è la 101, come il piano dove vive Merovingio (una connessione che non può essere casuale), le autostrade sono la numero 101 e 303 (peraltro, in alcuni cartelli dell’autostrada si vedono uscite realmente esistenti sulla 101 per San Francisco). E quando Trinity entra nel sistema informatico della centrale usa la password Z10N0101. E che dire dei 23 uomini, 16 femmine e 7 maschi di Matrix reloaded? In Matrix Reloaded sono passati 6 mesi da Matrix e Morpheus dice “abbiamo liberato più persone in questi ultimi sei mesi che negli ultimi sei anni”, Neo è il sesto degli eletti.
Anche il tre ricorre spesso. Tre sono i protagonisti, tre gli agenti e tre gli stessi film.

Imprevisti
Per dirla con Hegel, nel caso si esprime la necessità. Marcus Chong (Tank) non si è messo d’accordo con la produzione per il compenso di Matrix Reloaded. È dato per morto. Così sua sorella Zee può insistere con il marito Link perché faccia attenzione. Gloria Foster (l’oracolo) muore alla fine di Matrix reloaded, che ruolo avrebbe giocato nel terzo?

Sviluppi nelle sceneggiature di Matrix

Riportiamo qui alcune citazioni tratte dalle sceneggiature precedenti ai film. La sceneggiatura del ‘96 di Matrix è simile a quella definitiva ma più incentrata sul mondo degli hacker. In generale “spiega” di più, lasciando meno alla comprensione del pubblico. Di seguito riportiamo le differenze più notevoli.

In un dialogo tra hackers su Matrix:

JACKON: I heard Morpheus has been on this board.
SUPERASTIC: Morpheus doesn’t even exist and the Matrix is nothing but an advertising gimmick 4 a new game…
QUARK: The Matrix is a euphemism for the government.
SUPERASTIC: No, The Matrix is the system controlling our lives.
TIMAXE: You mean MTV.
SUPERASTIC: I mean Sega.
FOS4: ALL HAIL SEGA!!!

Quando l’amico di Neo va a prendersi il programma si parla ancora del sistema:

ANTHONY: I need your help, man. Desperate. They got me, man. The shackles of fascism…I told you, honey, he may look like just another geek but this here is all we got left standing between Big Brother and the New World Order.

Cioè si esplicita il riferimento a 1984 di Orwell (anche se poi si parla di una dittatura fascista anziché stalinista). La famosa frase: “if you’re not one of us, you’re one of them” la dice Trinity a Neo quando lo scannerizzano per le cimici.

Il “dono” dell’eletto appare assai banalmente una capacità connessa alla programmazione:

MORPHEUS: Let me tell you why you are here.You are here because you have the gift.
NEO: What gift?
MORPHEUS: I’ve watched you, Neo. You do not use a computer like a tool. You use it like it was part of yourself. What you can do inside a computer is not normal. I know. I’ve seen it. What you do is magic.

Spiegando perché è difficile liberare gli adulti, Morpheus dice:

MORPHEUS: We are trained in this world to accept only what is rational and logical. Have you ever wondered why?…As children, we do not separate the possible from the impossible which is why the younger a mind is the easier it is to free while a mind like yours can be very difficult.

La problematica del dubbio iperbolico di stampo cartesiano è introdotta assai più banalmente con la questione dello sviluppo della realtà virtuale anziché con le suggestioni oniriche:

MORPHEUS: If the virtual reality apparatus, as you called it, was wired to all of your senses and controlled them completely, would you be able to tell the difference between the virtual world and the real world?

La città è proprio Chicago (che Morpheus cita esplicitamente e dove peraltro sono nati i fratelli Wachowski), così come il riferimento al post-modernismo:

MORPHEUS: You have been living inside Braudillaurd’s vision, inside the map, not the territory.

Quanto alle macchine, la cosa è assai più banale. Si ribellavano per questioni di giustizia:

MORPHEUS: At first all they wanted was to be treated as equals, entitled to the same human inalienable rights. Whatever they were given, it was not enough.

Ma subito dopo sembra esserci una coloritura, è proprio il caso di dire, politica:

MORPHEUS: The war raged for generations and turned the face of our planet from green and blue to black and red.

L’oracolo vive nientemeno che nel Tempio di Zion, con tanto di sacerdotesse…con Neo, poi l’oracolo è molto esplicito:

ORACLE: Hmmm. You sure got the gift, but it’s tricky. I’d say the bad news is, you’re not the one. Still got a lot to learn. Maybe next life.

E il dialogo finale è assai più debole:

NEO: Hi. It’s me. I know you’re out there. I know you’re working as fast as you can to catch me.
I thought I should call and let you know how things stand. I know you’re real proud of this world you’ve built, the way it works, all the nice little rules and such, but I’ve got some bad news. I’ve decided to make a few changes.

Per confronto, il finale della sceneggiatura definitiva è questo:

NEO: The One: I know you’re out there. I can feel you now. I know that you’re afraid. You’re afraid of us. You’re afraid of change. I don’t know the future. I didn’t come here to tell you how this is going to end. I came here to tell you how it’s going to begin. I’m going to hang up this phone and then I’m going to show these people what you don’t want them to see. I’m going to show them a world without you, a world without rules and controls, without borders or boundaries, a world where anything is possible. Where we go from there is a choice I leave to you.

La sceneggiatura di The Matrix Reloaded del ‘99 è assai deludente. È così differente da quella realizzata che è difficile anche solo compararla. Riportiamo qui alcuni passi di un certo rilievo. Le abilità di Neo sono connesse a mutazioni genetiche. Spiega Trinity.

TRINITY For the past 50 years or so, something has been happening to children in the Matrix. They’ve been mutating, changing in ways the machines never predicted. Some seem to gain faster reflexes and strength. Others seem to have psychic powers.

E poco dopo lo stesso agente Smith:

SMITH: But as humans continue to evolve, some are developing capabilities beyond those of the average man. Reality-altering abilities. I have them. Others in the Agency have them. And you have them, too. We’re all that stands between law and order, and a terrorist dictatorship lead by the one called Morpheus.

Morpheus spiega così la sua strategia:

MORPHUES: For decades, we have fought force-on-force, in the real world, without a conclusion. Now, after nearly a century of war, we’re at a standstill. The only way that we can see to win is by destroying their source of energy. We have to pull the plug on them. We must crash the Matrix.

Neo avrebbe la capacità di distruggere Matrix ma non vuole perché ucciderebbe degli innocenti:

SMITH: So, why don’t you take it all down?
NEO: The Matrix?
SMITH. Yes.
NEO: I can. But if I destroy the Matrix, everyone within it will die.

Mentre Neo si pone questi scrupoli, Morpheus cerca di convincerlo che è giusto farlo.

Matrix (counter)revolutions

Mai, nella storia del cinema, la conclusione di una trilogia ha così grossolanamente tradito le premesse, le basi psicologiche e logiche dei personaggi, la storia, del primo episodio. Tra Matrix Revolutions e Matrix vi è un abisso talmente incolmabile che sembrano scritti da artisti diversi, girati da registi diversi e recitati da altri attori. Se questo è dovuto alle pressioni ricevute dai fratelli Wachowski o se è una trovata per produrre altri episodi lo vedremo. Di certo un film come Matrix non si meritava un epilogo del genere.

Prima ancora delle conclusioni ideologiche e politiche a cui il film arriva, vale la pena osservare la debolezza filmica di Matrix Revolutions. Se in Matrix non c’è un solo dialogo di troppo, non c’è un solo fotogramma che non sia necessario e sufficiente alla storia, qui vale decisamente il contrario. Non c’è un solo dialogo degno di questo nome. La puerilità degli scambi tra i personaggi, rispetto alla complessità di Matrix Reloaded è tale che sembra girato da due analfabeti che, avendo visto Matrix e Matrix Reloaded, volevano farne una parodia con i limitati mezzi culturali a propria disposizione.

Matrix è un continuo stupire lo spettatore, in Matrix Revolutions non c’è nessuna scena che non derivi pedissequamente, trivialmente, dalla scena precedente secondo una concatenazione bambinesca. L’attacco delle macchine a Zion è qualcosa di visto mille volte, è l’ennesima ripetizione delle Termopili, di Fort Alamo e di qualunque altra battaglia in cui il manipolo di eroi si oppone a un invasore infinitamente più potente. Non c’è un solo frammento dell’attacco (dagli amici che muoiono dopo atti di eroismo ai nemici che vengono distrutti come mosche) che non si sia stato visto altre mille volte. Al massimo, con quella sorta di bazooka che gli uomini usano contro le macchine, i fratelli Wachowski hanno voluto rendere omaggio ai mujaheddin che combattevano i russi o forse agli iracheni che combattono gli americani.

Il ruolo di Neo appare confuso e incerto quanto Neo stesso. L’eletto appare vivere a cavallo del mondo degli uomini e delle macchine ma senza che ciò sia spiegato in alcun modo. La sua missione nel mondo delle macchine è risolta in modo patetico. La sorte fa morire Trinity cosicchè, a differenza di Matrix Reloaded, l’eletto non abbia dubbi sulla scelta da fare. Ma in che cosa si risolve la sua missione di liberatore? Penetra nel mondo delle macchine con facilità, trova niente meno che il dio delle macchine che gli pone delle domande come fosse Mosè salito sul monte Sinai. Ora mentre Neo conclude Matrix spiegando alle macchine che sta per mostrare agli uomini un “mondo senza di loro”, ovvero sta armando politicamente la razza umana per estirpare le macchine dalla faccia della Terra, posto di fronte alle macchine che cosa è in grado di dire? Pace e amore. Neo l’eletto si riduce a un hippie. La tigre, alla prova decisiva, si dimostra un agnello. Ovviamente a quel punto che senso ha il lungo e noioso combattimento con Smith? A quel punto del film sappiamo che Neo e Smith sono niente meno che la stessa cosa, sono come le due facce della stessa medaglia, il bene e il male, lo yin e lo yang. Smith è stato creato per equilibrare le equazioni del programma che l’eletto squilibrava. Alla fine l’eletto “libera” Smith dandogli la libertà. Qui dovrebbe esserci il senso filosofico del film: il libero arbitrio dell’uomo che sconvolge le macchine. Ma l’esito è decisamente misero. Che cos’è infatti la libertà? Morpheus in Matrix lo spiega bene a Neo: la libertà è un’illusione in un mondo di schiavitù e finché esisteranno le macchine l’uomo non sarà libero. Qui invece basta l’idea di libertà per portare Smith all’autodistruzione, salvo vedere l’agente Smith morto trasformato nell’oracolo.

Tanto basta alle macchine per decidere una tregua a tempo indeterminato con gli uomini. Le macchine, dopo aver semidistrutto Zion, si ritirano felici e contente. E Morpheus piange di gioia. Il sacrificio dell’eletto, che intanto viene condotto, deposto come il Cristo, nel cuore della città delle macchine, ha salvato la razza umana.
La scena finale a questo punto è ovvia: le due facce di Matrix, l’architetto e l’oracolo, il padre e la madre, l’equilibratore e la sparigliatrice del sistema, sono contenti che seppur a fatica l’ordine sia ristabilito e il gioco può ricominciare.

E alla fine ci si rende dunque conto del senso del titolo del film. Non una rivoluzione, un cambiamento radicale e definitivo del sistema, ci proponeva il film, ma le rivoluzioni, cioè un ciclo, l’eterno ritorno, la ruota del karma (che una famiglia di indiani spiega all’eletto), una giostra in cui i combattenti salgono sperando di cambiare le cose non sapendo di essere manovrati come marionette sin dall’inizio.

Il tradimento dello spirito di Matrix è completo. Ed è anche riconosciuto apertamente. Matrix ci racconta di una guerra senza quartiere. Ma qui “the war is over” annuncia il ragazzino-San Gabriele. Dunque è finita, non è vinta. Ma siccome sappiamo che l’uomo finché esisteranno le macchine non sarà libero, la guerra in realtà è persa, la schiavitù continua.

I fratelli Wachowski hanno detto che Matrix è per loro il “lavandino di cucina” nel senso che vi hanno posto tutti i riferimenti culturali possibili. Nei primi due film questo è chiaro fino all’eccesso ed alcuni dialoghi di Matrix Reloaded occorre sentirli diverse volte per sviscerarli teoreticamente. Qui siamo alla farsa. Qui del lavandino di cucina è rimasto l’avanzo della cena prima. I riferimenti si sono ridotti alla parodia dei vangeli, ad alcuni riferimenti al Signore degli anelli (l’eletto che va nella città del nemico mentre l’esercito di questo attacca la sua città) e a poco altro tra cui, nelle conclusioni, il mago di Oz. La perdita di spessore è impressionante. Questo colpisce più di tutti i personaggi più complessi. In fondo, Neo e Trinity sono personaggi abbastanza lineari, si amano, combattono. Sebbene Neo, come detto, si sia fatto da lupo agnello, in definitiva non ha mai capito che cosa stava facendo. Ma che dire di Morpheus, un uomo che ha passato la vita intera a cercare l’eletto per annientare le macchine e si ritrova a gioire della tregua da esse accordata? Un capo vigoroso e autorevole che quando Niobe conduce la nave in salvo è appena in grado di eseguire i suoi ordini. Trinity dal canto suo si è trasformata in una bisbetica, buona solo per colpire con i suoi ridicoli calcettini i cattivi e condurre l’eletto sul Golgota. L’agente Smith non ha fatto una fine migliore. Era il capo dell’apparato ideologico-repressivo delle macchine, qui diventa un pazzo, ma anche il fratello gemello dell’eletto. Cercare una connessione tra lo Smith che diceva “male, molto male signor Anderson” e questo patetico teppista non ha senso. Lo stesso Merovingio, che spiegava deliziosamente che il potere è controllo, qui si riduce a un mafioso che per giunta si fa incastrare sotto la minaccia delle armi e in casa sua.

Se Neo e Morpheus, come caratteri, sono stati totalmente traditi nell’epilogo, le illogicità si ammassano l’una sull’altra, il che stride apertamente con la coerenza cristallina di Matrix. Partiamo dalla battaglia stessa. Gli uomini sanno di essere in enorme inferiorità numerica. Affrontare la battaglia a viso aperto con nemici che non hanno alcun rimorso o scrupolo, è dunque inutile. Ma gli uomini hanno gli EMB, l’arma che devasta le macchine a costo di una ridotta perdita per gli uomini stessi. La logica vorrebbe che la difesa fosse affidata a sequenze di EBM che annientassero le ondate delle macchine. Invece si va al massacro sparando con armi da fuoco…; ma le macchine non sono da meno. Potrebbero annientare in pochi secondi tutti gli abitanti di Zion veicolando gas nervini o prodotti analoghi nelle condotte di areazione, invece svolazzano come api impazzite trafiggendo qui e là qualche malcapitato. E perché mai le macchine dovrebbero far sopravvivere Zion? Quale vantaggio gliene viene?

Ma l’incoerenza maggiore è proprio il dio delle macchine. Il senso di Matrix, profondo e potente, è che le macchine non sono “cattive”, non c’è il grande vecchio, la Spectre di Bond o Sauron del Signore degli anelli che si incarica di assorbire tutto l’odio degli spettatori. Le macchine hanno cominciato a sfruttare l’uomo per necessità e continuano a farlo secondo un piano logico ma non teleologico, senza un centro. Matrix è un programma, un sistema, non un’entità astrattamente malvagia. Qui questa struttura è rovesciata e Neo parla con questa incarnazione malefica circondata di insetti che non fanno mai male per accrescere lo schifo, quando le idee difettano.

Come si diceva i riferimenti religiosi hanno preso il sopravvento, laddove in Matrix l’equilibrio tra funzione politica e mistica dell’eletto era del tutto azzeccato. La battaglia finisce quando i sopravvissuti si rifugiano nel tempio (un ricordo delle campagne di Israele dell’esercito romano?). Non solo, ma la fine dei due eroi è iconograficamente palese. Neo muore e siede alla destra del padre, Trinity muore trafitta come San Sebastiano.

I romani dicevano che repetita iuvant. Ma non funziona così per Matrix. I combattimenti, le sparatorie, sono nel terzo una parodia di quelli del primo Matrix. Sono risapute, semplicemente più ricercate, non aggiungono nulla se non noia. E che dire dell’oracolo, enigmatica sfinge che diviene cialtrona, attaccata da Morpheus e da Smith per ragioni opposte, che non trova di meglio che dire all’agente Smith “sei un bastardo”, forse con riferimento alla sua origine di programma sentinella?

Che i fratelli Wachowski vogliano eliminare ogni speranza nel pubblico lo si vede da una scena rivelatrice. La nave di Trinity e Neo vola sopra la coltre di nuvole per evitare le macchine che l’eletto non era riuscito a scassare. Trinity vede il Sole e commenta: è bellissimo. Potrebbe essere l’inizio di un’idea: loro due che scappano per restare nel paradiso terrestre iperuranio. Oppure anche, semplicemente, un suggerimento: le macchine non possono volare in alto. Basta porsi a poche centinaia di metri dal suolo per vivere felici. E invece la nave dopo pochi istanti piomba nella cupa e plumbea realtà, Trinity viene uccisa, Neo si avvia al suo calvario.

Un’ultima osservazione può essere fatta per la colonna sonora. Matrix conteneva brani di musica rock molto potenti e combattivi. Matrix Revolutions contiene solo placidi e sonnolenti pezzi strumentali. Evidentemente chiudere con un pezzo dei Rage against the machine dopo averci ammorbato con due ore di “pace e amore” è sembrato troppo anche a loro.

Rimaniamo dunque con enormi interrogativi irrisolti. È Zion la realtà vera o solo un’illusione. La bambina indiana è il nuovo eletto, o il nuovo oracolo o tutti e due? Morpheus continuerà a cercare l’eletto o si renderà conto che è inutile e si darà all’alcol? La ribellione stessa è un trucco di Matrix o un genuino sentimento degli sfruttati riassorbito grazie ai traditori e ai doppiogiochisti? Non lo sapremo mai, probabilmente.

La fine della trilogia è la negazione della trilogia. In fondo, Matrix è un film che sta in piedi da solo. A differenza della trilogia nel suo complesso, ha una sua logica ferrea e conclusioni inequivoche. Basterà considerarlo come tale, e prendere gli altri due per quello che probabilmente sono: un mezzo per allungare il brodo allo scopo di accrescere il conto in banca.

“Tutto ciò che ha un inizio ha una fine” è il refrain del film. Ma che dire di una tragedia di Euripide con le conclusioni di un cartone di Disney?

Bibliografia

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V per Vendetta, storia romantica di un eroe anarchico e di un regime fascista

Il 5 novembre del 1605 Guy Fawkes, rappresentante della nobiltà inglese cattolica, cercò di far saltare il parlamento (la House of Commons) con lo scopo di assassinare il re Giacomo I e altri nobili protestanti. Ancora oggi, a Londra questa data viene festeggiata con fuochi artificiali, anche se ha perduto ogni connotato politico. Il 5 novembre del 1997 alternativo in cui è ambientata questa storia, un eroe solitario, novello Guy Fawkes, riesce a far saltare il parlamento inglese e con esso lo stato fascista che rappresenta, innescando una rivoluzione che rovescerà la dittatura.

Questa è la trama di V for Vendetta, pellicola tratta dall’omonimo fumetto di Alan Moore, illustrato da David Lloyd, e pubblicato per la prima volta sulla rivista a fumetti inglese “Warrior” a partire dal 1982. Moore ha disconosciuto con forza il film, sostenendo che non ne rappresenta il contenuto artistico e ideologico, che molti dialoghi risultano ammorbiditi (termini quali fascismo e anarchia, nel fumetto utilizzati esplicitamente, qui aleggiano solo nel contesto implicito della storia). È sempre difficile trasformare un testo scritto, seppure a fumetti, in un’opera cinematografica e sono presenti differenze tra film e fumetto, pure importanti, ma ci sembra che la pellicola riesca comunque a incorporare molti elementi decisivi dell’opera di Moore. Certo, su grande schermo, le debolezze e le illogicità si dilatano e forse è questo che l’autore ripudia.

La storia è ambientata in un’Inghilterra risparmiata dall’olocausto nucleare grazie alla vittoria laburista dell’83, che ha condotto al disarmo unilaterale. Peraltro, niente di buono, a parte sbarazzarsi dei missili americani, ha fatto il governo Labour. La guerra ha distrutto interi continenti (comprese l’Africa e l’Europa, sembrerebbe), lasciando intatta praticamente solo l’Inghilterra e una moribonda Unione Sovietica. L’economia mondiale è dunque collassata e il paese è alla fame, anche se l’elemento della miseria è meno visibile nel film. Dopo i disordini seguiti al conflitto dell’88, dalle ceneri della guerra è emersa la dittatura di “gruppi fascisti che si sono uniti con alcune delle grosse corporation sopravvissute”, i Norsefire (il cui motto “la forza attraverso l’unità; l’unità attraverso la fede” denota l’uso classicamente fascista che il regime fa della religione), sono un’organizzazione paramilitare che, una volta al potere, inizia un’opera di sterminio dei diversi (minoranze etniche, omosessuali, attivisti di sinistra). Certo vi sono alcune incongruenze in questo sviluppo. Innanzitutto, il fascismo implica una riorganizzazione produttiva in patria come mezzo per la conquista aggressiva di mercati esteri, colonie e così via. Questo regime sembra invece privo di una qualunque politica estera e persino di una politica economica. È puramente repressivo. In secondo luogo, qualunque movimento reazionario nel Regno Unito farebbe perno sulla monarchia, che è qui invece assente. Nel film invisibile, nel fumetto appena sfiorata all’inizio, quando si parla di una regina Zara.

Per il resto, il regime è rappresentato secondo i cliché classici della dittatura fascista. Bande di aguzzini sessuofobi controllano le strade. Esperimenti medici nei lager, dove i prigionieri, vestiti con la funesta divisa a strisce dei campi nazisti, vengono torturati e avviati ai forni crematori. I mass media sono asserviti alla propaganda nazionalista e fascista (ogni programma si chiude con il motto “prevalga l’Inghilterra”). Guida il paese con pugno di ferro il classico paranoico, nel film impersonato magistralmente da John Hurt, il quale, curiosamente, era invece il “buono” nella trasposizione cinematografica di 1984.

Ma sebbene il regime non paia avere nemici politicamente rilevanti (organizzazioni, stati confinanti) appare nondimeno assai debole. Vi sono continue rivolte per il pane, la gente non crede alla propaganda (questo elemento è particolarmente presente nel film), tuttavia la rivolta è disorganizzata, e dunque produce disordine, anziché una seria resistenza. Non si profilano alternative credibili all’orizzonte.

V for vintage

La massa è dispersa di fronte al regime. Ma ecco emerge dal buio della notte un eroe solitario, gotico e malinconico, più Batman che Superman. Come l’eroe di Gotham ha il mantello nero e una maschera, solo che anziché ritrarre un pipistrello, la maschera rappresenta Guy Fawkes, improbabile vendicatore dei torti di un popolo oppresso. V sta, come dice il titolo stesso, per Vendetta (l’uso di un termine non anglosassone è esso stesso retrò), ma sta anche per la A di anarchia, appena nascosta dal suo rovesciamento, e sta ovviamente anche per la V di vittoria di churchilliana memoria. Ma in origine tutto deriva dalla numerazione a caratteri romani delle celle del lager dove l’eroe era stato rinchiuso.

L’entrata in scena di V è tempestiva, come si conviene a un eroe mascherato. Salva la giovane Evey dal sadismo sessuale della polizia politica (i “castigatori”) che volevano punirla per averla trovata fuori casa dopo il coprifuoco (nel film non ci spiegano che Evey era fuori per racimolare del denaro prostituendosi). L’abilità di V con i coltelli è sovrumana e fa parte dell’atmosfera marcatamente demodé che lo accompagna. V vuole salvare dalla distruzione la cultura, l’arte, la civiltà, lasciate marcire dal regime. Lo si vede nella sua dimora, la “galleria delle ombre”, piena di quadri, spartiti, dischi, libri, tutte creazioni che alla massa sono ormai precluse. Ma V non vuole solo difendere questa eredità, vuole anche incarnarla. Parla per citazioni, si muove come una maschera shakespeariana, è vestito come un gentiluomo rinascimentale, persino le sue armi sono d’annata. Evey lo prende in giro per “tutta questa roba di teatro” ma V spiega che il melodramma è importante e che i potenti “hanno scordato che tutto è teatro”. V difende dunque l’eredità culturale distrutta dalla crisi del capitalismo, ma lo fa in quanto vive sul palcoscenico egli stesso e infatti spiega che “tutto il mondo è palcoscenico”. Il romanticismo del personaggio non si ferma al costume, è fortemente radicato anche nelle sue concezioni politiche. V è infatti un anarchico dichiarato (di sé dice “il suo nome è anarchia”, prendendosi sul serio). La sua strategia politica è una riedizione della teoria dell’azione dimostrativa dei narodniki russi o degli anarchici francesi. La folla, immenso branco di inetti, deve essere risvegliata da un gesto eclatante a nuova vita, la famosa propaganda dei fatti.

V è davvero convinto che abbattendo un palazzo si possa mettere in moto una rivoluzione. L’apoteosi dell’ideale politico dell’eroe si ha nel discorso che V trasmette alla televisione. È la quintessenza della sterilità del terrorismo anarchico: si parla solo per concetti (giustizia, libertà, bene, male) senza connettere mai repressione e miseria, dimenticandosi di citare le sommosse per il cibo ormai endemiche. La gente è oppressa e inferocita ma non sa che fare, V si propone come il vendicatore mascherato, un super-eroe, a cui demandare la soluzione dei propri problemi. L’arringa anarchica di V avviene però in mezzo a un regime che sta rapidamente franando nel caos. A un tratto, nel film, un ladro urla al negoziante che sta rapinando “Anarchy in the UK”, citazione punk un po’ tirata per i capelli, ma che rende l’idea di come ognuno guardi ai gesti di V come gli fa comodo. Molti si domandano se quella guerra di tutti contro tutti non sia già l’anarchia. V deve spiegare più volte la differenza tra caos e anarchia: l’anarchia non è il caos. Anarchia significa niente capi, non niente ordine; l’ordine anarchico è volontario, ma ovviamente l’eroe non spiega come intenda far emergere questo ordine dal caos. Questo almeno nel fumetto, perché il film ha una conclusione più hollywoodiana.

Le gesta di V seguono un’escalation tipica del terrorismo. Ex internato a Larkhill, dove ha subìto esperimenti genetici che ne hanno modificato la mente portando all’emersione di una perversa logica di morte, e da cui è fuggito dando fuoco al campo, V si vendica innanzitutto di chi lo aveva tenuto in prigione, e uccide tutti i responsabili del campo, compresi il vescovo pedofilo e la biologa. Poi amplia la sua azione distruggendo il simbolo stesso della giustizia: la sede dei tribunali londinesi (che per inspiegabili ragioni, nel film è stato tradotto come il “vecchio Bailey”, rendendo incomprensibile la cosa a chi non sa che così gli inglesi chiamano quel palazzo). Passa poi al parlamento (la sequenza nel fumetto è differente ma il senso rimane quello). Conclude infine la sua opera istruendo Evey a succedergli come vendicatore mascherato. La formazione della ragazza include anche una discreta dose di torture, secondo V necessarie a renderla forte e adatta al compito. Qui si potrebbe pensare a una forzatura del personaggio. Ma V non è Batman, è un personaggio più complesso di quanto la maschera sorridente di un nobile di quattro secoli prima possa far immaginare. Moore non vuole esaltare unilateralmente un terrorista anarchico, non è Zorro contro la Gestapo. V è divenuto quello che è attraverso prove atroci che lo hanno reso mentalmente instabile. In sostanza V è pazzo, anche se l’autore simpatizza per la sua battaglia contro il regime, mostrando che nella follia indotta dal lager, V mantenga un metodo, per citare uno dei suoi autori preferiti. L’eroe non è riuscito a uscire dal cerchio insano di Larkhill, come si vede nei rapporti con i suoi simili, compresa Evey, l’umanità non è però persa, visto che, alla fine, l’amore di Evey per V salva tutto.

V vuole risvegliare le coscienze, e l’autore gli consente di farlo. Ma mentre nel fumetto il successo di V è molto meno chiaro (una protetta del regime, vedova di un alto funzionario, uccide il dittatore ma questo non innesca la rivoluzione), nel film il lieto fine è completo. I londinesi si vestono come V e circondano i palazzi del potere, dove l’esercito decide di non massacrarli. Ma che cosa sostituirà lo stato fascista? La miseria non scomparirà col regime. Evey, novella V, continuerà a buttare giù palazzi dopo aver arringato la folla sul fatto che “nell’anarchia esiste un’altra strada”? Quali basi materiali potrebbe avere non già una democrazia autogestita anarchica ma anche solo una pallida democrazia borghese in mezzo alla guerra per un tozzo di pane? In fondo, quando il leader parlando del suo essere fascista e di credere nel fascismo, sostiene che è colpa della guerra che “ha messo fine ai lussi e alla libertà” lasciando solo la miseria, non sta farneticando. Il regime è il prodotto di una crisi sociale senza precedenti. Non bastano i coltelli di V a eliminare questa realtà storica.

Ma all’eroe poco importa. Anche se V muore in un conflitto a fuoco contro un alto funzionario del regime come il più inutile dei terroristi, è felice perché ha passato la fiaccola della rivolta alla sua allieva. Sebbene venga ucciso dal piombo fascista, V è tranquillo perché, spiega, “le idee sono a prova di proiettile”.

1984 e l’anarchia

Come lo stesso Moore ha spiegato, una delle principali fonti di ispirazione del fumetto è 1984 di Orwell. Questo vale soprattutto per l’uso che il regime fa della propaganda. Qui si usano parti del corpo (l’occhio, il dito) per indicare i diversi apparati repressivi, continuamente connessi con il dittatore, ma rispetto alla visione orwelliana vi è una differenza notevole. Orwell descrive una società (essenzialmente lo stalinismo) senza eccessivi problemi economici, dove la propaganda fa presa non solo per il terrore ma anche per la crescita delle condizioni materiali di vita della popolazione e dunque la ribellione al regime è un anelito morale, politico, senza ancora una base materiale immediata. Questa è la ragione per cui in molti film ispirati in qualche modo a 1984 si pone l’accento più sul versante circense, spettacolare dei media piuttosto che su quello del puro controllo. Si pensi a The running man (film tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King), dove il muscoloso Schwarzenegger rovescia la dittatura battendo i suoi gladiatori. Ma nell’Inghilterra di Moore la fame riduce le capacità propagandistiche del governo a nulla, nessuno crede alla televisione di regime. Questo però non sembra preoccuparlo. Ora, stona un po’ questo fallimento totale della dittatura con la sua robustezza politica. Non garantisce il pane, la sua ideologia è screditata, come è possibile che si mantenga al potere?

Moore avrebbe dovuto indagare meglio sul tipo di mondo che andava rappresentando. Sembra invece che abbia voluto ripercorrere sentieri risaputi, introducendo elementi scontati, quasi manieristici, come l’ipocrisia dei religiosi (fino al prete pedofilo), gli esperimenti alla Mengele. Ora, il rischio, nel rappresentare il male, è di renderlo talmente astratto da farne una specie di divinità, come fa ad esempio Tolkien con Sauron, che è appunto, il diavolo in persona. Qui si è però corso il pericolo opposto, connettere il “male” per così dire, a elementi contingenti. Questa fissazione per elementi secondari ha delle conseguenze. Il vescovo pedofilo sarebbe stato ugualmente ingranaggio del sistema senza avere un debole per le ragazzine, e la repressione avrebbe potuto anche non prevedere esperimenti biologici. Certo, si può arguire che queste vere e proprie psicosi dei rappresentanti del regime, che godono nel torturare, nello stuprare bambini, sono la conseguenza di un regime follemente sanguinario, ma questo attira l’attenzione su aspetti individuali, quasi casuali del regime. Il problema invece, se si guarda alla storia reale dell’Inghilterra e del mondo capitalista degli ultimi vent’anni, non è la lunaticità di un regime, non è il fascismo, ma la crisi organica del capitalismo che produce, in ogni sistema politico, un esito simile, anche se con caratteristiche differenti. La repressione politica in Gran Bretagna avvenne ad opera di un governo eletto, così come una democrazia ha compiuto stragi in Iraq, in Afghanistan e altrove. Non servono i fascisti per fare della macelleria sociale, è bastata la Thatcher e persino governi socialdemocratici. Solo che facevano a meno di lager e punitori.

Moore non pretendeva certo di scrivere un trattato politico o sociologico con V per Vendetta e onestamente riconosce, nell’introduzione al fumetto, la propria “inesperienza politica”, definendosi anche, nella postfazione Sotto il sorriso dipinto, un pessimista. Tuttavia è chiaro che sia il fumetto che il film sono disposti a voli di fantasia notevoli per difendere l’ideale anarchico. V dice che le idee non possono essere fermate dai proiettili, ma questo solo perché si tratta dei proiettili finti di Hollywood. Nella realtà, la sua carriera di vendicatore sarebbe durata ben poco. Ma il punto è di metodo politico più che di efficacia concreta. V ritiene che basti dare l’esempio per risvegliare le coscienze. Il suo elitismo retrò sembra funzionare, quando tutti indossano la sua maschera. Questo se davvero si ritiene che basti vestirsi da conte di Monte Cristo per rovesciare un regime fascista.

La concezione romantica di V è poi presentata come senza conseguenze. Il regime è furibondo per i suoi attentati, ma non fa ritorsioni, la prende sportivamente. La realtà è che ad azioni del genere sarebbero seguiti arresti sommari, retate di massa, un duro giro di vite. Ciò non fa emergere la natura eminentemente antidemocratica del terrorismo, che espropria gli oppressi della loro possibilità di agire, ponendoli alla mercé della repressione. La cosa accade però per altra via: un popolo può essere terrorizzato da attentati terroristici (orchestrati dal governo, come nel film, ma anche realizzati da terroristi autentici come V), per essere mantenuto in uno stato di continua paura e soggezione. Questo non aiuta certo l’emergere di una coscienza anti-sistema. Solo un’organizzazione di massa può abbattere un regime con le caratteristiche di quelle descritte in V per Vendetta e vi sono tutte le condizioni per cui una tale organizzazione emerga. Un bombarolo non può che ritardare questo processo necessario. Dovendo esaltare la propaganda dei fatti di matrice anarchica, la storia dimentica invece ogni parvenza di logica e di realismo. Laddove la cosa risalta più crudamente, nel film, è nella rappresentazione del rapporto tra soldati armati e folla, i quali si ignorano l’un l’altro, evitando il previsto bagno di sangue. Che una massa di persone orribilmente oppresse per decenni possa “dimenticarsi” dei propri aguzzini al momento decisivo dell’azione limitandosi a passare oltre è fantascienza. Come è fantascienza che dei soldati possano rimanere impassibili in quelle circostanze. Passerebbero con la rivoluzione o la schiaccerebbero. In entrambi i casi non risparmierebbero proiettili.

In definitiva, nonostante l’opera sia un generoso apologo del terrorismo anarchico, l’anarchia non ne esce come una alternativa credibile alla rovina del capitalismo. V salva la giovane Evey e le dice che distruggere un palazzo può cambiare il mondo. Ha torto, distruggerlo non cambia il mondo, ma prenderlo sì.

Il quarto Matrix

Resta da dire qualcosa sul rapporto tra questa pellicola e le precedenti opere dei fratelli Wachowski, che hanno iniziato a lavorare alla sceneggiatura per la versione cinematografica di V per Vendetta ancor prima che alla trilogia di Matrix, talché per molti versi questo film spiega la parabola matrixiana. Anche qui abbiamo l’eletto, superuomo fisicamente ma disturbato psichicamente, abbiamo l’interrogatorio da Gestapo, solo che qui è falso (quando Evey si accorge che è stato V a torturarla, lui si giustifica alla Morpheus: sei in catene e non lo sai, io ti ho liberato, ma rimaniamo col dubbio che Evey potesse essere formata senza bisogno di torture) soprattutto, abbiamo anche qui la giustificazione teorica dei massacri indiscriminati (anche se, risibilmente, gli attentati di V non fanno morti) che in Matrix servivano per difendersi e dunque erano sempre giustificati (“se non sei uno di noi sei uno di loro”) mentre V deve faticare a convincere la sua adepta che è giusto propagandare le idee col fuoco e le bombe. Retrospettivamente, spiega perché in Matrix Morpheus fallisce e l’eletto vince. È di nuovo l’esaltazione del mito anarchico del vendicatore mascherato che ripara i torti, senza bisogno di un’organizzazione, di una lotta politica, come quella che Morpheus ingaggia contro i moderati di Zion. In questo senso, il film V per Vendetta chiude il cerchio: i Wachowski sono sì anti-sistema ma attraverso l’illusione della scorciatoia al tritolo.
Anche il modo con cui riconsegnano gli spettatori alla realtà è simile: attraverso una canzone rivoluzionaria, nel primo Matrix “Wake up” dei Rage against the machine, qui, almeno nell’edizione italiana, “Street fighting man” dei Rolling Stones. Le intenzioni sono buone dunque, ma l’ingenuità regna sovrana.

Per una storia del trotskismo. Appunti introduttivi

[sulle vicende qui narrate sinteticamente si veda il libro di Ted Grant Il lungo filo rosso, http://www.marxismo.net/libri/teoria-marxista/libri/il-lungo-filo-rosso-di-ted-grant ]

1. Introduzione

La scienza del movimento operaio è il marxismo – L. Trotskij

Il marxismo come scienza della rivoluzione è la cristallizzazione dell’esperienza della lotta di classe che il proletariato conduce contro il capitalismo da oltre due secoli. In ultima istanza ogni partito e ogni corrente rappresentano una certa parte della società (“Una qualsiasi lotta di frazione in un partito è sempre, in ultima analisi, il riflesso della lotta di classe” ha scritto giustamente Trotskij). Lo studio della storia del marxismo è dunque lo studio della storia della lotta di classe vista da un punto di vista delle tendenze politiche e teoriche che questa lotta rappresentano, anche da un punto di vista scientifico. La posizione tipica dei riformisti è il rifiuto dello studio di questa storia con la scusa veramente geniale dei cambiamenti intervenuti nella società “nell’ultimo periodo”. Questa volontà di ignorare le lezioni delle lotte passate ha molte ragioni, tra cui quella di recidere il legame tra i grandi rivoluzionari del passato e la nuova generazione della classe operaia. La ragione principale sta però nel fatto che lo studio delle lotte del movimento operaio e del marxismo dimostrano chiaramente quanto le “novità” del capitalismo e dei burocrati riformisti ricorrono con noiosa ciclicità nei decenni passati. I dirigenti si aggrappano a ogni trovata di qualche professore di “sinistra” per confutare il marxismo, per dimostrare le rotture col passato ecc. Sperano in questo modo di difendere i propri privilegi per i tempi a venire. In questo senso, come quinta colonna borghese nelle file del movimento operaio, agiscono correttamente, perché sanno che il marxismo è l’arma più potente che la classe operaia ha forgiato nella sua secolare storia.
Dal nostro punto di vista lo studio del marxismo nelle sue varie fasi ha un’importanza fondamentale. In questo contributo verrà trattata la storia del trotskismo[1], ovvero del marxismo del nostro secolo, nel periodo che va dalla degenerazione del primo stato operaio ai giorni nostri. Nella storia del marxismo possiamo scorgere un filo ininterrotto di analisi e di azione politica che parte da Marx ed Engels, passa per il bolscevismo e approda alla quarta internazionale e alla sua tendenza rivoluzionaria. Non c’è niente di sentimentale, di feticistico, che ci lega attraverso questo filo ai marxisti del passato, c’è la finalità comune di lottare per la liberazione del proletariato e per il progresso dell’umanità. Possiamo lasciare gli scettici, i pessimisti inguaribili e i pasdaran del capitalismo al loro ruolo di freno della storia. Questa stessa storia si incaricherà di rendere il loro lavoro sempre più faticoso e impossibile. Dal nostro punto di vista lo studio delle lotte politiche, sociali e teoriche del passato costituisce una indispensabile guida per l’azione.

2. L’Internazionale Comunista dopo Lenin

La terza internazionale, nel decennio che va dal 1923 al 1933, cessò di essere il partito della rivoluzione mondiale e divenne il partito della controrivoluzione mondiale. Il processo iniziò con il fallimento della rivoluzione in Germania, dovuto anche a politiche scorrette suggerite dall’ala destra del partito bolscevico, e terminò con la presa del potere da parte dei nazisti.
Non è questo il luogo per analizzare il processo di degenerazione dello stato operaio russo e del partito bolscevico. È comunque importante notare che i dirigenti principali del partito e soprattutto Lenin e Trotskij erano ben consci dei pericoli insiti nell’isolamento e nell’arretratezza dell’economia russa. Già nel ‘22 Lenin si mosse, compatibilmente con le sue ormai precarie condizioni di salute, per tentare di porre un freno alla deriva burocratica del partito. Il 1923 fu l’anno in cui cominciò la lotta tra la frazione bolscevica, guidata da Trotskij, e l’apparato burocratico intorno a Stalin. In quell’anno venne formata l’Opposizione di sinistra come mezzo per riformare il partito e lo stato. Nell’ottobre del 1923 Trotskij scrisse alcune lettere al CC del Pcr sulla democrazia nel partito e firmò la “dichiarazione dei 46” (un documento che prendeva il nome dai 46 dirigenti che formavano l’opposizione). L’apparente imminenza della rivoluzione in Germania rafforzò l’opposizione e al Plenum di dicembre del CC la politica di “Nuovo Corso” venne approvata, anche se non verrà mai portata avanti. La sconfitta della rivoluzione tedesca, causata anche dagli errori della direzione russa, isolarono l’opposizione. Nell’autunno del 1924 Stalin propose la teoria assolutamente nuova e antimarxista del “socialismo in un solo paese”. La burocrazia, sfidata dall’opposizione, aveva preso coscienza di sé e cominciava a crearsi una giustificazione teorica delle proprie politiche. Le sconfitte che si susseguirono negli anni ‘20 (in Cina, in Inghilterra ecc.), furon sia causa che risultato dello spostamento a destra della burocrazia e consentirono all’apparato, paradossalmente grazie ai propri errori, di isolare l’avanguardia bolscevica nel Pcr e in ogni altro partito comunista. Dal 1926 al 1928 si consumò la breve esperienza dell’opposizione unificata: Zinoviev, Kamenev e altri, sottovalutando Stalin, avevano pensato in un primo momento di servirsene contro Trotskij. Essendosi resi conto della totale estraneità di Stalin dalle pratiche e dai principi del bolscevismo, compirono una svolta unendosi a Trotskij. Ma di nuovo, dopo due anni, operarono una nuova svolta e si arresero alla burocrazia. Nello stesso anno Stalin lanciò le prime ampie purghe nel partito[2] . Al sesto congresso della Internazionale Comunista Trotskij propose una piattaforma alternativa che, data la ancora incompleta degenerazione del partito, venne ammessa alla discussione. Molti dirigenti dell’Internazionale presero contatto per la prima volta con le idee dell’opposizione russa ed estesero la battaglia dell’Osi in molti partiti comunisti del mondo.
Nel 1929 Trotskij venne esiliato in Turchia e l’Osi allontanata dai partiti comunisti. Nello stesso periodo la burocrazia stalinista compì una svolta settaria di 180 gradi nel suo orientamento politico. Scavalcò formalmente a sinistra l’Osi, dichiarò giunta l’epoca del declino finale dell’imperialismo e definì i partiti riformisti come “gemelli” del fascismo. In questo modo preparò la colossale disfatta del proletariato tedesco.
Questa politica non era che l’esportazione all’estero della svolta a cui Stalin era stato costretto all’interno: distruzione della nascente borghesia (basata sulla Nep) e applicazione, seppur mostruosamente distorta, delle misure proposte dall’opposizione di sinistra (pianificazione, piano quinquennale ecc.). A quell’epoca, definita dall’Internazionale Comunista il “terzo periodo”, Trotskij considerava ancora l’Osi come la tendenza rivoluzionaria della terza internazionale e resisteva alle pressioni di alcuni estremisti che avrebbero voluto formalizzare una scissione per formare subito una nuova internazionale. I gruppi rivoluzionari nei vari paesi cercavano di organizzarsi come tendenze dentro e fuori i partiti comunisti. Nel 1933 ci fu la disastrosa sconfitta del proletariato tedesco, in cui i nazisti poterono prendere il potere e annientare il più potente movimento operaio mondiale senza sparare un colpo, anzi con la complicità del partito comunista. Questo infatti si rifiutò di allearsi con la Spd contro i nazisti, ripetendo che la Spd e i nazisti erano gemelli. Arrivò addirittura a votare insieme ai nazisti contro la Spd in un referendum che chiedeva l’abbattimento di un governo socialdemocratico. Mentre i suoi dirigenti dichiararono trionfanti che ora era il loro turno e che Hitler era solo di passaggio, Trotskij realizzò l’impossibilità di riformare l’Internazionale Comunista e lo stato operaio sovietico. Dal 1933 l’Osi si chiamerà Lci (lega comunista internazionalista) per la quarta internazionale.

3. Per una nuova internazionale

Negli anni successivi Trotskij chiarì che in Urss non era più possibile una riforma dello stato e del partito, era necessaria una rivoluzione politica che eliminasse la burocrazia. In questo periodo i deboli gruppi trotskisti nel mondo, a volte isolati dal movimento operaio, ma a volte con ottimi quadri e un certo appoggio tra i lavoratori, cominciarono la costruzione della nuova Internazionale.
Nel 1936, mentre si consumava il sabotaggio della rivoluzione spagnola, in Urss cominciarono i processi intesi a eliminare ogni dirigente e ogni militante che avesse una qualsiasi connessione con la rivoluzione d’ottobre. Molti di questi non erano neanche attivi nel partito, altri appoggiavano passivamente Stalin, ma vennero comunque sterminati dal primo all’ultimo. All’inizio della seconda guerra mondiale il partito più rivoluzionario della storia era stato completamente sradicato dalla Russia e dal mondo. Trotskij era l’unico legame rimasto tra il bolscevismo e le nuove generazioni. Stalin ovvierà anche a questo.
Quando Trotskij decise di fondare la quarta internazionale, il movimento operaio stava attraversando uno dei periodi peggiori della propria storia, probabilmente quello più denso di sconfitte, disastri e massacri. Gli anni ‘30 si aprirono con la lotta rivoluzionaria dei lavoratori spagnoli e si chiusero con l’infame patto tra Stalin e Hitler che arrivò come colpo finale a demoralizzare completamente una classe operaia esausta. In Europa il tallone nazifascista aveva schiacciato il movimento operaio e atomizzato le sue organizzazioni. In Urss avvenne lo stesso processo, anche se con un altra base sociale, perché la burocrazia manteneva la proprietà statale dei mezzi di produzione come strumento per l’accrescimento dei propri privilegi. Questo quadro sembra ben diverso, e in realtà decisamente opposto, a quello in cui venne fondata l’Internazionale Comunista, sull’onda di una rivoluzione vittoriosa e delle ripercussioni mondiali della prima vittoria operaia della storia. “Non ci sono le condizioni oggettive per una nuova internazionale”, con questa ovvia diagnosi molti condannavano la decisione ‘utopica’ di Trotskij e dei quadri rivoluzionari che si raccoglievano attorno a lui[3] . Come fanno spesso i ‘realisti’, questi signori rifiutavano di analizzare dialetticamente la situazione, estraevano gli aspetti più appariscenti e ovvi e se ne servivano per confermare le proprie tesi. Trotskij partiva da un altro presupposto. Nonostante l’immane sconfitta subita dal proletariato in molti paesi, nonostante l’imminenza di una nuova carneficina globale, ancora una volta la classe operaia si sarebbe aperta la strada verso il potere. Il problema fondamentale di questa epoca, aperta con la rivoluzione d’ottobre e perdurante ancora oggi è il problema della direzione rivoluzionaria. Anche se debole e isolata, la quarta internazionale, basandosi sui principi del marxismo e con un giusto orientamento verso il movimento operaio, poteva porsi come una seria alternativa alle direzioni moribonde e corrotte riformiste e staliniste.
Il 3 settembre 1938, 25 delegati in rappresentanza di undici paesi proclamarono ufficialmente la fondazione della quarta internazionale. Nel complesso la nuova internazionale venne fondata con tendenze in circa trenta paesi. Molte di queste erano deboli, inesperte e di composizione sociale scarsamente proletaria. Ma vi erano eccezioni considerevoli. Per esempio negli Stati Uniti aderirono James Cannon e la sua corrente; Cannon uno dei fondatori del partito comunista, si era unito all’Osi nel 1928 dopo aver conosciuto e fatto conoscere i documenti di Trotskij. Era anche uno dei dirigenti più riconosciuti dalla classe operaia americana. In Cina aderì Chen Tu-Hsiu, fondatore del partito comunista cinese, che aveva aderito all’Osi dopo la sconfitta della rivoluzione cinese. Nel complesso comunque, la quarta internazionale nasceva con meno forze di quante ne avesse avute l’Osi nel ‘33 e questo spinse alcuni a non farvi parte. In Urss, dove per Trotskij vi era ancora la sezione più importante della quarta internazionale, la situazione era tragica e l’opposizione già era stata quasi completamente annientata. Tra il marzo e il maggio del 1938 a Vorkuta circa tremila oppositori trotskisti vennero sistematicamente massacrati.

4. Chiarezza politica

La rivoluzione d’ottobre aprì la strada a una serie di rivoluzioni su scala mondiale. Nonostante l’eroismo rivoluzionario delle spesso giovanissime avanguardie comuniste, molte occasioni andarono perdute per inesperienza e per errori settari. I bolscevichi, nei congressi dell’Internazionale Comunista, cercavano di mettere le direzioni dei giovani partiti comunisti al passo coi i compiti immani della presa del potere. La tattica del fronte unico venne proposta in questo periodo a quei partiti che operavano in paesi in cui i riformisti avevano ancora un peso importante, se non decisivo, nel movimento operaio. Alcuni partiti e alcune tendenze rifiutarono questa tattica, ritenendola un arretramento opportunista. Tra di essi c’era anche la direzione del Pcd’I (allora compatta dietro Bordiga). Quando Trotskij cominciò la battaglia di opposizione, attirò anche alleati di questo tipo, settari convinti che lui avesse finalmente capito gli sbagli precedenti. Una parte di questo settore che in Italia definiamo bordighista, passerà effettivamente al trotskismo, ma per la sua gran maggior parte romperà con l’Osi nel corso della lotta allo stalinismo. Indubbiamente molti di questi dirigenti erano rivoluzionari onesti, come Bordiga, che difese sempre l’Osi, pagando cara la propria coerenza. Tuttavia il loro orientamento settario li tagliava fuori dal movimento operaio organizzato.

5. La Quarta Internazionale dopo Trotskij

Nei periodi di reazione e declino saltano fuori da tutte le parti gli stregoni e i ciarlatani – L. Trotskij

Poco dopo lo scoppio della guerra, Stalin fece uccidere Trotskij, in un momento in cui gli occhi del mondo erano puntati altrove, proprio come Trotskij stesso aveva previsto. Due anni prima suo figlio, Leon Sedov, aveva subito la stessa sorte. Il movimento trotskista[4] si ritrovava a entrare in guerra in condizioni critiche. Nell’Europa continentale, in cui tradizionalmente vi era la stragrande maggioranza del movimento operaio organizzato, i trotskisti erano stati pressoché sradicati dall’azione congiunta dei nazifascisti e degli stalinisti. Tuttavia negli anni ‘30 i trotskisti riuscirono a condurre importanti lotte sindacali e politiche in vari paesi. In Francia, la sezione della quarta internazionale ottenne un grande appoggio con la proposta di fronte unico delle organizzazioni operaie per fermare il fascismo a metà del decennio, e fu in riferimento alla sezione francese che Trotskij propose per la prima volta la tattica dell’entrismo. Tuttavia con la conquista nazista anche questa sezione venne schiacciata. Le poche cellule sopravvissute portarono avanti una politica rivoluzionaria come poterono, spesso nei campi di concentramento. In questo periodo quelli che diventeranno i due dirigenti principali della quarta internazionale, Mandel e Pablo, diedero le migliori prove di sé, operando eroicamente in paesi occupati dalla dittatura hitleriana. I trotskisti così, si trovavano ad agire, con una certa libertà, in soli due paesi avanzati: la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Negli Stati Uniti la direzione del Swp, grazie anche ai consigli di Trotskij, ebbe successi notevoli, acquisendo un peso considerevole nelle lotte sindacali del tempo (Minneapolis, New York ecc.). Della sezione inglese parleremo dopo. Nei paesi coloniali la quarta internazionale aveva alcuni punti di forza notevoli: in Vietnam la sezione aveva un’influenza di massa e guidava il movimento per l‘indipendenza del paese. Anche nello Sri-Lanka la sezione era un partito operaio di massa. Nel complesso, nonostante tutto, la quarta internazionale poteva contare su un nucleo importante di quadri rivoluzionari e su un certo numero di sezioni in vari paesi del mondo. La morte del “Vecchio” portò lo scompiglio. Non si trattò solo della perdita del simbolo stesso della rivoluzione d’ottobre, nonché del più grande rivoluzionario del secolo con Lenin, ma si trattò della scomparsa del legame tra direzioni nazionali molto diverse, spesso immature e poco temprate. Non passò un anno dall’omicidio di Trotskij e già l’internazionale era spaccata. Non a caso la spaccatura avvenne sull’analisi dell’Urss e la posizione che i trotskisti dovevano assumere verso di essa. È sulla questione della natura dell’Urss che la quarta internazionale si distinse politicamente da ogni altra corrente del movimento operaio. È grazie all’analisi della degenerazione della rivoluzione bolscevica che i trotskisti acquisirono la capacità di comprendere allora, come in seguito, il proprio tempo, le svolte continue dei partiti comunisti e dunque la guida per intervenire nella classe operaia. Si può dire che almeno nove decimi delle spaccature, che si contano a dozzine, che la quarta internazionale e le sue sezioni nazionali hanno subito, sono partite o si sono concentrate sulla natura dell’Urss. Anche la nostra tendenza è nata in questo modo.

6. La natura di classe dell’Urss

Già prima della fondazione della quarta internazionale, vi erano gruppi estremisti che proponevano la teoria che l’Urss fosse uno stato capitalista in cui la borghesia era formata dalla casta burocratica che estorceva plusvalore al proletariato come il capitalista ‘privato’ fa nel resto del mondo. In Italia per esempio, questa teoria venne fatta propria dai bordighisti. In seno alla quarta internazionale l’analisi di Trotskij veniva accettata da tutti, o almeno così sembrava. Poco prima della sua morte, nella sezione americana, il Swp, una corrente cominciò a muovere critiche alla teoria dello stato operaio degenerato e propose una nuova teoria, quella del “collettivismo burocratico”. Secondo questa teoria l’Urss sarebbe un nuovo tipo di stato, né capitalista né operaio che esprimerebbe peraltro una tendenza generale dell’economia mondiale. Una tendenza peraltro progressista, che dunque sarebbe un errore contrastare. Tanto il nazifascismo, quanto il New Deal, quanto l’Urss non sarebbero che diverse modalità con cui i manager pubblici e privati, i burocrati aziendali e statali, vanno acquisendo il potere nella società. I fondatori di questa teoria erano due dirigenti del Swp, Burnham e Shachtman, che avviarono un’aspra lotta di frazione in seno alla sezione americana contro l’idea che i trotskisti dovessero difendere l’Urss contro l’imperialismo. Trotskij e la maggioranza del Swp difesero la posizione dello stato operaio degenerato. La frazione che difendeva la concezione del ‘collettivismo burocratico’ rifletteva il cambiamento di umore nella piccola borghesia radicale. Finché difendere l’Urss significava una politica astratta, basata su eventi che accadevano lontano, allora si poteva essere rivoluzionari senza sforzi. Quando, all’avvicinarsi della seconda guerra mondiale, la difesa dell’Urss diveniva un problema che investiva tutto il mondo, questi intellettuali, professori di filosofia e simili, si rifiutavano di difendere la mostruosa dittatura stalinista, accusando i trotskisti di voler difendere il totalitarismo. La loro fine dimostra quali erano le basi sociali della spaccatura: dopo essersi scissi dal Swp e aver formato il Workers’ Party, diventeranno nel dopoguerra uno un intellettuale anti-comunista, l’altro un politico confuso. Questo episodio evidenzia una lezione che si dimostrerà più e più volte vera nella storia: la critica alla concezione dell’Urss come stato operaio deformato è l’inizio di una rottura politica e organizzativa con il movimento rivoluzionario. Questo non significa che tutte le correnti politiche che hanno rifiutato l’analisi di Trotskij sono poi passate alla reazione. Ma questa rottura è una condizione necessaria sulla strada di una svolta controrivoluzionaria. Così fu anche nella lotta di frazione in senso al Swp. All’inizio, questa concezione sembrava una deformazione peculiare di una corrente del partito, ma col tempo, si dimostrò per quello che era, una teoria profondamente reazionaria. Trotskij rispose magistralmente a queste deformazioni in In difesa del marxismo. Anche se prima della sua morte queste correnti restavano minoritarie, non bisogna dimenticare che il SI[5], rifugiato a New York, appoggiava maggioritariamente la frazione Burnham-Shachtman della sezione americana che proponeva di modificare la posizione della quarta internazionale verso l’Urss e questo dimostrava fondamentalmente l’immaturità di questo organo. In generale la lotta di frazione in senso al Swp era solo un sintomo di un processo generale.

7. Vittoria e diversificazione dello stalinismo

Come detto la guerra distrusse gran parte della direzione della quarta internazionale. Molti quadri, che sarebbero stati decisivi nel dopoguerra, finirono nei campi di sterminio nazisti e stalinisti, altri vennero assassinati dai servizi segreti delle ‘democrazie’ occidentali. Questa debolezza oggettiva non era però cosa nuova per i rivoluzionari. Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, i socialisti internazionalisti che si incontravano in Svizzera, potevano stare in qualche carrozza di un treno, secondo la nota battuta di Trotskij, eppure dopo nemmeno cinque anni era stata fondata un internazionale comunista di massa come culmine della vittoria della classe operaia in Russia. Il problema fu che gli esiti della seconda guerra mondiale agirono sulla direzione internazionale come fattori di scompiglio decisivo. La burocrazia, vincitore del nazifascismo, otteneva una incredibile ricompensa per i suoi crimini, mezza Europa da edificare a propria immagine e somiglianza. L’Armata Rossa a Berlino era la prova che Stalin aveva avuto ragione, che l’esempio sovietico andava apprezzato e seguito. Nei dieci-venti anni successivi alla vittoria contro Hitler, lo stalinismo raggiunse il suo apogeo. L’enorme sviluppo economico e tecnologico dell’Urss, di cui lo sforzo bellico era la prova più convincente, dimostrava la superiorità della pianificazione sovietica su ogni forma di capitalismo, anche la più brutale. Lo stalinismo aveva occupato militarmente l’Europa dell’Est e in qualche anno, peraltro molto facilmente, modellava questi paesi a propria somiglianza. In Iugoslavia e in Cina gli stalinisti prendevano il potere in modo autonomo da Mosca ma pur sempre entrando a far parte del sistema sovietico. La guerra di Corea fu l’ennesima frustrazione per l’imperialismo occidentale, in specie americano. Mezzo mondo era saldamente nelle mani di caste burocratiche sovietiche e l’influsso sovietico si faceva sentire in ogni angolo del mondo coloniale, spingendo colonnelli e satrapi locali a definirsi socialisti, nazionalizzare fabbriche e miniere e passare armi e bagagli con Mosca. Perfino Cuba, squallida provincia dell’impero americano, una specie di bordello galleggiante al largo della costa americana, sollevò la testa. La vittoria di Castro e Guevara a Cuba, una nazione intimamente dentro il sistema imperialista statunitense sconvolse la borghesia americana. Sebbene ingrassati da anni di boom economico, i capitalisti americani non risero quando Krusciov urlò nel palazzo di Vetro: “Vi seppelliremo!”. C’era già chi faceva il conto alla rovescia per prevedere l’anno in cui l’Urss avrebbe dovuto superare il colosso americano (il 1984 circa). In Italia e in Francia, ma non solo, il movimento operaio era controllato saldamente dagli scagnozzi del Cremlino. L’apoteosi della barbarie stalinista ebbe un effetto deprimente e disorganizzatore sulla quarta internazionale. Ancora una volta sorsero profondi dissidi sulla natura di questi stati. I satelliti di Mosca erano stati operai degenerati? E la Cina o la Iugoslavia, in cui gli stalinisti avevano preso il potere autonomamente, che natura di classe avevano? E i vari staterelli che si dichiaravano socialisti in giro per il mondo? Oggi potrebbe sembrare curioso che qualcuno potesse vedere delle differenze nella natura dell’Urss degli anni ‘60 e della Ddr o della Bulgaria, o anche della Iugoslavia e della Cina. A uno sguardo anche superficiale questi stati apparivano così simili che qualsiasi differenziazione sarebbe sembrata quanto meno arbitraria. Eppure su questo problema l’internazionale si ruppe la testa. Il nodo del contendere era questo: si può accettare che uno stato operaio, anche se enormemente deformato, possa sorgere come conseguenza della vittoria bellica e dell’occupazione militare? Può l’Armata Rossa modificare i rapporti di produzione, sostituendosi in un certo senso alla classe operaia? E se si accetta questo, a che serve la quarta internazionale? Non sono più utili i carri armati come mezzo di espansione dello stato operaio? Le risposte date a questi punti tormentarono l’internazionale per tutto il periodo postbellico. Qui cercheremo di esporre brevemente quali risposte vennero date.

8. L’Urss sì, l’Ucraina forse, la Iugoslavia assolutamente no

Quelli che se la sbrigarono più facilmente furono i teorici del capitalismo di stato: l’Urss è uno stato capitalista che impone il proprio capitalismo ad altri paesi. La corrente che oggi si raccoglie attorno al giornale Lutte Ouvriere (l’Uci, Unione Comunista Internazionale, ma allora si chiamava diversamente), propose e in seguito difese la posizione, strana finché si vuole, che l’Urss rimaneva uno stato operaio degenerato mentre tutti gli altri paesi in cui non c’era stata una rivoluzione operaia, erano regimi a capitalismo di stato. In questo modo, secondo loro, difendevano il ruolo dei marxisti: uno stato operaio, anche degenerato, può essere frutto solo di una rivoluzione. L’Armata Rossa può imporre solo un diverso modo di funzionare del capitalismo. Una parte del movimento trotskista passò a negare che anche l’Urss fosse uno stato operaio degenerato. In questo modo poterono mantenersi neutrali nei conflitti tra l’imperialismo e la burocrazia sovietica[6] . La maggioranza della quarta internazionale, rappresentata dal SI e soprattutto da Mandel e Pablo, avanzò una sorta di mediazione. Nel 1947 Mandel scrisse che “l’intera metodologia marxista è irreconciliabile con l’assurda teoria che stati operai degenerati possano essere installati in un paese senza prima una rivoluzione proletaria” (Fourth International, 2/1947, pag. 48). Per qualche anno dunque, la posizione della maggioranza era di rifiutare l’idea che lo stalinismo potesse estendersi con vittorie militari. Facendo così, questi dirigenti pensavano di rimanere fedeli al pensiero di Trotskij.
In realtà, negli ultimi lavori che analizzano l’Urss, Trotskij aveva già anticipato la possibilità di un’espansione dello stalinismo. Ipotizzò anche la possibilità che la burocrazia lasciasse intatti il capitalismo, ma spiegò che:

“È più probabile, tuttavia, che nei territori destinati a far parte dell’Urss il governo di Mosca espropri i grandi proprietari terrieri e nazionalizzi i mezzi di produzione. Questa variante è la più probabile non perché la burocrazia resta fedele al programma socialista ma perché non è né desiderosa né capace di dividere il potere, ed i privilegi che implica, con le vecchie classi dominanti dei territori occupati.
A questo punto si potrebbe fare un’analogia storica calzante anche alla lettera: il primo Bonaparte arrestò la rivoluzione mediante una dittatura militare. Tuttavia, quando le truppe francesi invasero la Polonia, Napoleone firmò il decreto: la servitù è abolita. (…). Nella misura in cui la dittatura bonapartista di Stalin si basa sulla proprietà statale e non su quella privata, l’invasione della Polonia da parte della Armata Rossa, nel caso specifico, dovrebbe avere come risultato l’abolizione della proprietà privata capitalistica, portando così il regime dei territori occupati ad armonizzarsi con quello dell’Urss. Questo provvedimento, di carattere rivoluzionario – l’espropriazione degli espropriatori – è in questo caso realizzato in maniera militare-burocratica.” (In difesa del marxismo, pagg. 59-60).

E Trotskij andava avanti anticipando sia che la burocrazia avrebbe stroncato l’attività indipendente delle masse, sia gli effetti di questi successi:

“…l’estensione del territorio dominato dalla autocrazia burocratica e dal parassitismo, nascosta dietro misure socialiste, può aumentare il prestigio del Cremlino e diffondere illusioni sulla possibilità di rimpiazzare la rivoluzione proletaria con manovre burocratiche” (op. cit., pag. 61)

“Non affidiamo al Cremlino nessuna missione storica. Siamo stati e restiamo contrari alla conquista di nuovi territori da parte del Cremlino.” (op. cit., pag. 62)

Come abbiamo visto invece, la maggioranza della quarta internazionale negava queste tesi.
Ma all’inizio degli anni ‘50 non solo questa posizione venne cambiata, ma il SI effettuò una svolta opportunista appoggiando di fatto la burocrazia,come vedremo tra poco. È interessante notare che, non potendo accettare comunque uno stato operaio che degenera senza prima essere stato sano, il SI adottò questa concezione: l’Urss era uno stato operaio degenerato, gli altri erano stati operai deformati. Cosa questa distinzione implicasse in termini di necessità della rivoluzione politica o di condizioni delle masse sotto tali regimi, questo è un mistero ancora oggi. Ma la differenza terminologica stava a significare che l’Urss un tempo era uno stato operaio sano, mentre gli altri sin dall’inizio non lo erano[7].
Come notato prima, analizzando la struttura della Cecoslovacchia, dell’Urss o di qualsiasi altra “democrazia popolare” non si sarebbero trovate più differenze che tra l’Italia e la Francia, per non parlare del Brasile o del Sudafrica, che ogni tendenza politica concordava essere tutti stati capitalisti. Eppure questo appariva chiaro solo alla direzione della sezione britannica, il Rcp (Revolutionary Communist Party).

9. Il ruolo del Rcp

La storia del trotskismo britannico, al pari di quello di ogni altro paese, è una storia di rotture, unioni di due gruppi che alla fine diventano dieci e così via. A tuttora in un solo periodo storico il movimento trotskista è stato unito in un’unica organizzazione, dal 1944 al 1948. Prima della guerra in Inghilterra c’erano due gruppi trotskisti, la Wil (Workers’ International League) e la Rsl (Revolutionary Socialist League). Sebbene la quarta internazionale riconoscesse ufficialmente la Rsl, questa era una piccola setta con poche radici nel movimento operaio. La Wil, che pure era nata come frazione di minoranza del movimento, grazie al suo lavoro nei sindacati, nelle forze armate ecc., era diventata un punto di riferimento importante per l’avanguardia operaia. Nel 1944 la Wil inglobò i resti della Rsl per formare il Rcp, sezione britannica della quarta internazionale. Dal 1944 il Rcp fu la sezione ufficiale della quarta internazionale e alla fine della guerra era la sezione europea più sviluppata politicamente e tra quelle più grandi organizzativamente. Infatti il Rcp fu, come visto, l’unica sezione europea funzionante nel corso della guerra e raggiunse una forza considerevole, tanto che si trovarono in seguito dei piani dei servizi segreti per l’assassinio dei suoi dirigenti nel caso di una radicalizzazione della classe operaia inglese. Sin dall’inizio il Rcp ebbe fondamentali divergenze rispetto al SI. Oltre alla natura di classe degli stati sorti con la vittoria militare dell’Urss, c’erano altri due nodi fondamentali che dividevano la direzione del Rcp e il SI: la possibilità del capitalismo di riprendersi e l’atteggiamento da avere verso i partiti socialisti e comunisti. Anche in questo caso, la direzione della quarta internazionale, utilizzando formalisticamente alcune idee di Trotskij, proponeva un’analisi scorretta. Innanzitutto il capitalismo non poteva avere ulteriori espansioni[8] , in secondo luogo i partiti legati al riformismo e allo stalinismo si sarebbero distrutti rapidamente, lasciando alle sezioni della nuova internazionale lo spazio debito per la costruzione del partito rivoluzionario. Vi furono vari scontri su questi problemi e molte voci contrastanti, ma solo la direzione del Rcp formulò un’analisi complessiva su questi nodi complessivi e si oppose al SI. Purtroppo nel 1948 il Rcp si frantumò per una serie di ragioni (condizioni oggettive negative, gli intrighi del SI che preferì spaccare la sezione piuttosto che rispondere politicamente ai suoi dirigenti, ecc.). Nello stesso periodo i dirigenti della quarta internazionale compirono una svolta politica e organizzativa che portò alla più forte divisione nell’internazionale.

10. Il “pablismo”

Nel 1949, Michel Pablo, segretario del SI, propose una nuova interpretazione dello stalinismo. Lungi dall’essere una degenerazione dovuta a cause specifiche, il bonapartismo proletario incorporava tendenze universali nella transizione storica al socialismo. Lo stalinismo non era più considerato un regime transitorio, seppur rafforzato per una certa epoca, senza nessuna funzione necessaria nella storia. Al contrario Pablo pronosticò “secoli di stati operai deformati” e arrivò a proporre la teoria “guerra-rivoluzione” di cui diremo tra poco. All’epoca in cui Pablo propose questa nuova interpretazione sembra che Mandel e gli altri dirigenti si opposero e ci furono degli scontri tra loro. Ma evidentemente la forza dello stalinismo convinse tutta la direzione della quarta internazionale della giustezza delle idee di Pablo.
In pratica la svolta era una razionalizzazione della debolezza dell’organizzazione. Anziché lottare per il consolidamento e la formazione dei quadri, la direzione cercò una scappatoia accodandosi alla principale forza del movimento operaio. La teoria “guerra-rivoluzione” fu il coronamento di questo processo. La rivoluzione mondiale non si basava più su una lotta generalizzata della classe operaia, ma nella visione del SI sarebbe stata il risultato dell’inevitabile conflitto tra Usa e Urss. Infatti questi dirigenti prevedevano che l’imperialismo avrebbe inevitabilmente attaccato l’Urss, scatenando la terza guerra mondiale. Questa guerra, data la probabile vittoria dello stalinismo, avrebbe portato alla diffusione di tale regime in tutto il mondo e, data la stabilità che ne sarebbe seguita, lo stalinismo sarebbe durato secoli. Sin dal ‘45 Ted Grant, il principale dirigente del Rcp, chiarì l‘impossibilità per l’imperialismo di lanciare una guerra contro l’Urss, per alcune ragioni chiave tra cui la forza del movimento operaio. Nello stesso periodo aveva avanzato la prospettiva del ruolo della burocrazia come “agente di cambiamento sociale”, senza però darle una qualsiasi patente progressista. Pensandoci oggi, la teoria della “guerra-rivoluzione” assomiglia a una trama di un film di fantascienza, ma non era altro che il riflesso delle condizioni politiche della guerra fredda nella mente di teorici disorientati e isolati. Tale concezione si basava su una profonda sfiducia nella classe operaia che non avrebbe potuto mobilitarsi contro la guerra e in un certo senso non avrebbe dovuto. Cercando di razionalizzare il proprio pessimismo, questi dirigenti facevano dell’olocausto militare il prerequisito del socialismo. Da un punto di vista organizzativo questo comportava una tattica denominata “entrismo sui generis”, che comportava la liquidazione della struttura delle sezioni nazionali e la loro adesione completa ai partiti stalinisti. Non si trattava di lavorare nelle organizzazioni di massa mantenendo la propria indipendenza politica e organizzativa, pur accettando la disciplina di partito. Si trattava di annullarsi nei partiti comunisti, visti come lo strumento della rivoluzione mondiale, anche se in una forma distorta. Presentando questa tattica, Pablo aveva afferrato un aspetto corretto della situazione, il rafforzamento dei partiti operai tradizionali, in specie stalinisti, nel dopoguerra. In sé l’idea di lavorare come componenti di tali partiti era sensata e poteva evitare derive settarie. Il punto è che Pablo e Mandel andarono ben oltre il lavoro organizzato e di fatto proposero un lavoro disorganizzato, lo scioglimento delle sezioni della quarta internazionale. Nel periodo che va dal 1949 al 1953 queste tesi aprirono dibattiti aspri nell’internazionale. Per altro, come sempre succede, una prospettiva errata deve essere difesa con misure organizzative e conduce all’eliminazione del regime interno democratico. Così nel 1953 la sezione francese, che si opponeva alla svolta, venne espulsa (e fondò la corrente di P. Lambert che esiste ancora oggi). Anche in Cina, dove i trotskisti lavoravano in enormi difficoltà ma con un certo successo, la svolta venne imposta, portando alla liquidazione della sezione. Solo in Sri-Lanka e in Bolivia, dove le sezioni erano numericamente molto forti, la svolta non venne condotta. La quarta internazionale si spaccò. Cannon, dirigente del Swp americano, formò una corrente internazionale per opporsi alla svolta pablista (l’International Commitee of the Fourth International). Il SI ottenne comunque la maggioranza e le correnti di opposizione per lo più formarono nuove quarte internazionali. Non tutte queste correnti attaccarono la direzione sulla base di considerazioni corrette. Molte erano semplicemente tendenze settarie che vedevano come fumo negli occhi ogni avvicinamento alle organizzazioni riconosciute del movimento operaio. Lo stesso Cannon, un grande dirigente rivoluzionario per anni, non fu immune da cedimenti settari. Scrisse per esempio: “Se la relazione tra le forze richiede l’adattamento dei quadri dell’avanguardia alle organizzazione dominate al momento da tendenze ostili come gli stalinisti, i riformisti, i centristi, bene questo adattamento deve essere considerato in ogni momento come un adattamento tattico per facilitare la lotta contro di loro; mai per effettuare una riconciliazione con loro; mai per assegnargli un ruolo storico decisivo…” (Trotskysm versus Revisionism, pag. 65). Come si vede questo brano si presta a diverse interpretazioni e può essere equivocato nella sua applicazione concreta. La corrente originata in questo scontro lo interpretò nel modo più settario possibile.
La spaccatura del ‘51-’53 condusse alla formazione di quasi tutte le tendenze internazionali che ancora oggi si richiamano al trotskismo. Il fatto che la quarta internazionale fosse ancora molto poco omogenea e strutturata a livello di direzione, venne dimostrato anche dal fatto che le rotture si provocarono spesso a livello continentale, dove un gruppo dirigente locale non accettava la svolta pablista. Così la quarta internazionale, appena rinata dopo le devastazioni della guerra, era già profondamente spaccata sui problemi centrali.

11. Trotskismo inconscio

L’espansione dello stalinismo non avvenne solo grazie all’avanzata dei carri armati russi. In Iugoslavia Tito, basandosi sulla guerra partigiana di liberazione, arrivò al potere autonomamente. Qualche anno dopo Mao, alla testa di un esercito contadino, schiacciò i nazionalisti e portò a termine una rivoluzione che distrusse il capitalismo nel paese più popoloso del mondo. Molti dirigenti trotskisti vennero sorpresi da questi eventi. Non solo lo stalinismo usciva enormemente rafforzato dalla seconda guerra mondiale. Non solo si imponeva direttamente in mezza Europa, ma forniva il modello per delle rivoluzioni in vari paesi. Tito e Mao giunsero al potere per mezzo di rivoluzioni autonome, senza l’aiuto diretto di Mosca che anzi sostanzialmente li boicottò. La forza del modello sovietico si impose per tutta l’epoca postbellica. Quello che in Russia era stato l’effetto di condizioni specifiche divenne la causa della deformazione di tutte le rivoluzioni successive. Per Marx ed Engels la rivoluzione socialista si sarebbe imposta prima nei paesi più avanzati, Inghilterra, Francia ecc., e quindi si sarebbe diffusa facilmente al resto del mondo. Il boom del periodo 1870-1917 e una direzione in via di degenerazione non diedero molte occasioni per prendere il potere alla classe operaia occidentale. Fu dunque la classe operaia russa, relativamente debole e arretrata, a prendere per prima il potere. Il suo isolamento e l’arretratezza sociale contribuirono alla degenerazione della rivoluzione. Ma i motivi che avevano rotto la catena dell’imperialismo nel suo anello più debole, la Russia, non svanirono con la fine della guerra, anzi, si rafforzarono. Nonostante la ripresa vigorosa in tutti i paesi avanzati, il capitalismo segnava il passo nel mondo coloniale. I paesi europei stavano perdendo i propri possedimenti coloniali, più o meno volontariamente (India, Indocina ecc.). Gli Stati Uniti non sempre erano in grado di rimpiazzare la Francia, l’Inghilterra ecc. nei loro imperi morenti. In Cina l’impasse totale del capitalismo si vide chiaramente con il disastroso regime di Chang Kai Shek. Sebbene costui fosse appoggiato, armato e finanziato dall’imperialismo occidentale, non era in grado di sciogliere i nodi fondamentali della rivoluzione borghese in Cina: la riforma agraria, l’indipendenza nazionale ecc. Il processo di rivoluzione permanente, in cui una classe ne sostituisce un’altra nei suoi compiti storici, che Trotskij aveva previsto per la Russia, si verificò in tutti i continenti per due ragioni fondamentali: l’impasse assoluta del capitalismo e la forza dell’esempio sovietico. Non deve sorprendere che alcuni dirigenti dell’internazionale, cristallizzando in teoria questa situazione, vedessero nella cricca del Cremlino un attore necessario della storia mondiale e delle rivoluzioni. L’unica sezione che non venne sconvolta dagli eventi fu il Rcp inglese. Non solo il Rcp aveva intuito la vittoria di Tito e di Mao già durante la guerra, ma soprattutto aveva capito che questi due bonaparti, nella misura in cui dovevano poco o nulla a Mosca, rispetto alle cricche staliniste dell’Europa orientale, sarebbero inevitabilmente entrati in attrito con l’Urss. Il conflitto tra Tito e Stalin, esploso nel 1948, fece definitivamente perdere la bussola al SI. Alcune correnti trotskiste superavano il problema negando che esistessero stati operai oltre l’Urss. A quel tempo, la direzione della quarta internazionale non aveva ancora lanciato l’idea di sciogliersi nei partiti stalinisti, ma già stava cercando scorciatoie per superare la propria debolezza. Lo scontro tra paesi stalinisti fornì questa scorciatoia. Questo errore venne ripetuto in tutti i casi in cui gli stalinisti giunsero in modo autonomo al potere (Tito, Mao, negli anni ‘60, Cuba). Anziché chiarire la natura di questi conflitti tra paesi stalinisti, la quarta internazionale si alleava con una frazione stalinista contro l’altra. Nel ‘48 la Iugoslavia venne dichiarata uno stato operaio sano e Tito un trotskista ‘inconscio’. La quarta internazionale arrivò addirittura alla prospettiva veramente fantastica di poter ammettere il partito comunista iugoslavo come sezione dell’internazionale. Successivamente il titolo di trotskista inconscio passò a Mao; infine passò a Castro. La storia non fornì successivamente nessun nuovo bonaparte a cui donare questo riconoscimento. Tutto ciò chiaramente aiutava lo stalinismo, non i rivoluzionari. Ma in realtà gli unici trotskisti inconsci sono stati gli operai dell’Europa dell’est che, senza un’organizzazione e senza leggere una pagina di Trotskij, hanno portato avanti una rivoluzione politica. Gli operai ungheresi del ‘56 che restarono nelle fabbriche occupate anche quando la reazione sovietica li bombardò con l’artiglieria, questi sì furono trotskisti inconsci. Contro tutte queste giustificazioni teoriche dell’opportunismo, la direzione del Rcp difese il metodo e i principi del marxismo. Innanzitutto, spiegando che senza il ruolo attivo e cosciente della classe operaia non si può avere una rivoluzione sana e la creazione di uno stato operaio sano. Questa è una condizione necessaria, ma come mostra l’esempio russo, non sufficiente. In tutti i paesi dove lo stalinismo giunse al potere autonomamente, non solo la classe operaia giocò un ruolo marginale, ma venne schiacciata sin dall’inizio dalla repressione burocratica. Gli operai delle città industriali cinesi che accoglievano l’armata di Mao occupando le fabbriche vennero massacrati per “ristabilire l’ordine”. Prima che queste burocrazie indipendentemente da Mosca giungessero al potere, era inerente nella situazione la possibilità e anche la necessità di un conflitto con la burocrazia russa. Ognuna aveva da difendere i propri privilegi contro le caste degli altri paesi. Il punto è che il partito comunista cinese, per cercare appoggio nel movimento stalinista, cominciò a usare slogan radicali che ebbero una certa eco anche in occidente.
I maoisti cominciarono ad attaccare aspramente Mosca. Riprendendo tesi diffuse anche in ambito trotskista, sostennero che i paesi dell’est, Urss compresa, erano divenuti stati capitalisti. Secondo loro Krusciov aveva compiuto un colpo di stato. Senza tentare di dimostrare quali cambiamenti ci fossero tra l’Urss del 1950 e del 1960, attaccarono la teoria dello “stato operaio degenerato” ecc. Con questa retorica radicale riuscirono ad attirare molti consensi nei partiti comunisti.
Ma questa verniciatura ideologica non modificava certo la linea politica di fondo dello stalinismo cinese. Si può dire che Mosca e Pechino facessero a gara a sostenere regimi reazionari nel mondo coloniale, purché ciò danneggiasse l’altro e comunque secondo i propri comodi. Questo scontro si rifletteva nei partiti comunisti occidentali che riuscivano a rendersi più indipendenti dal Cremlino. Ciò segnò anche l’inizio della trasformazione di questi partiti in classici partiti riformisti, un processo concluso da poco e non ovunque. La tendenza che aveva fondato il Rcp e che in qualche modo era rimasta legata alla quarta internazionale fino al 1964, presentò una critica ai cedimenti della direzione verso le ali più ‘radicali’ dello stalinismo. All’VIII congresso della quarta internazionale, nel 1965 queste tesi vennero respinte e questa tendenza espulsa (vennero pubblicate nel documento La rivoluzione coloniale e il ruolo dei quadri marxisti).

12. La ripresa del capitalismo

Le prospettive per lo stalinismo non erano l’unico punto su cui la direzione della quarta internazionale si stava perdendo, appena finita la guerra. L’altro nodo era la possibilità di una ripresa economica. Anche in questo caso, rifacendosi ad alcune affermazioni di Trotskij, fatte in un preciso contesto, anni prima, il SI escludeva la possibilità di una ripresa. La direzione del Rcp propose un’ipotesi alternativa. Con la formula di “controrivoluzione in forma democratica”, Ted Grant spiegò come, grazie al ruolo dei partiti stalinisti e riformisti, la borghesia aveva lo spazio per reprimere, seppure non militarmente, la classe operaia e rilanciare l’economia. Rispondendo alle posizioni di Pierre Franke (per il SI), che confondeva le acque sostenendo che in Europa c’erano solo regimi bonapartisti (con il trucco, per altro in voga anche recentemente, di parlare di “elementi di bonapartismo”). In questo modo la direzione del Rcp dimostrò di essere la vera continuatrice del metodo marxista: le sue analisi erano una guida per l’azione dell’avanguardia rivoluzionaria e non una giustificazione di errori commessi. Da un estremo ‘ultimatista’, simile alla teoria stalinista del terzo periodo, la direzione della quarta internazionale assunse una posizione all’altro estremo. Negli anni ‘60 per questi “teorici” la classe operaia si era politicamente atrofizzata e non poteva essere attratta da un’organizzazione rivoluzionaria. Così da motore della rivoluzione, la classe operaia diveniva, nelle tesi della direzione quartinternazionalista, quasi un peso e nuove forze – i popoli oppressi, le minoranze di ogni genere – venivano promosse a forza decisiva per il cambiamento. Ancora una volta la quarta internazionale non faceva che teorizzare la propria incapacità. Anziché spiegare le condizioni particolari in cui si era potuto mantenere un quarto di secolo di crescita, costoro passarono a occuparsi dell’oppressione razziale, sessuale, della guerriglia contadina ecc. La conclusione fu che furono colti di sorpresa da tutti i movimenti di lotta che si verificarono negli anni ‘60 e ‘70 in Occidente. Il caso più eclatante fu quello del movimento del 1968 francese, in cui milioni di operai francesi occuparono le fabbriche e ci furono le più imponenti manifestazioni della storia in quel paese. La Lcr, sezione della quarta internazionale, fu totalmente colta alla sprovvista. Si diede da sola il colpo di grazia pubblicando un volantino in cui, con un tono paternalista, chiedeva ai lavoratori di sottomettersi alla direzione rivoluzionaria, costituita appunto dalla Lcr, citando, fuori contesto, il brano del Che fare? in cui, in un modo poco felice e che in seguito rifiutò, Lenin chiarisce il ruolo della direzione rivoluzionaria. In generale alla lotta di classe venne sostituita ogni altra forma di lotta e questo impedì alle varie sezioni dell’internazionale di giocare un ruolo di qualche peso quando la classe operaia si risvegliò.

13. Lavoro nelle organizzazioni di massa

La quarta internazionale nacque con lo scopo di sostituire le direzioni reazionarie del movimento operaio, riformisti e stalinisti, che in modi diversi si erano prese il compito di salvare il capitalismo dalle lotte operaie, soprattutto boicottando e impedendo queste ultime. Le rivoluzioni sono un processo sociale oggettivo, come, in ambito diverso, le stagioni e le maree. La storia umana si è svolta attraverso fasi contraddistinte da modi di produzione diversi. Il passaggio attraverso queste diverse modalità di attuazione della produzione sociale sono state sempre traumatiche e rivoluzionarie. Ma sapere che ci saranno delle rivoluzioni, o anche prevedere il periodo in cui ci saranno, non basta per fare una direzione rivoluzionaria. L’esito storico della rivoluzione è deciso dal ruolo che la classe rivoluzionaria ha nel processo produttivo. In questo senso la borghesia è condannata sin dal sorgere di un movimento operaio indipendente. Ma l’esito storico non equivale all’effetto concreto della lotta di classe in un singolo periodo e in un singolo paese. A questo proposito si può fare l’esempio della guerra civile americana. L’esercito pro schiavista del Sud era condannato dallo sviluppo del capitalismo alla sconfitta. Tuttavia l’abilità dei suoi ufficiali, la determinazione dei soldati, l’indecisione dello stato maggiore nordista e altri fattori, fecero sì che i primi anni di guerra produssero per il Nord solo disfatte. Fin dall’inizio della guerra Marx ed Engels furono incrollabili nell’affermare che il Nord avrebbe vinto. Eppure in un dato momento sorsero dei dubbi anche a loro e in alcune lettere Engels non escluse la vittoria dei sudisti come effetto dei clamorosi errori della direzione nordista. Lo stesso può dirsi per la rivoluzione socialista: le condizioni dello stato maggiore della classe operaia sono decisive quando inizia la battaglia per il potere. Sono le stesse condizioni oggettive ad aprire enormi possibilità a una tendenza rivoluzionaria anche piccola. Ma se nel periodo precedente alla rivoluzione la tendenza rivoluzionaria non ha formato una struttura di quadri rivoluzionari temprati, esperti e riconosciuti nel movimento operaio, anche le condizioni migliori si perderanno. La frase con cui Trotskij apre il Programma di Transizione “la situazione politica è caratterizzata innanzitutto dalla crisi storica della direzione del proletariato” è stata vera sin da quando, circa sessanta anni fa, fu scritta. La quarta internazionale doveva servire, nelle intenzioni di Trotskij, proprio a risolvere questa crisi. Ciò significava, e significa, radicarsi nel movimento operaio: divenirne una corrente riconosciuta, anche se, per una certa fase, minoritaria. Le modalità concrete con cui arrivare a questo ruolo non hanno un rapporto meccanico con l’autonomia o meglio la visibilità dell’organizzazione. Il feticismo della setta, che vede come suo primo compito dichiararsi pubblicamente come “lega” quando ha più di tre membri, e come “partito” quando ne ha più di cento, non ha nulla a che vedere con il marxismo. I bolscevichi erano un vero partito anche quando formalmente costituivano l’ala sinistra della socialdemocrazia russa. In questo campo bisogna evitare due errori mortali opposti ma del tutto simili. Il primo è quello di costituire un’ala genericamente di sinistra del movimento operaio, disinteressandosi della costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria. Questo errore lo possiamo vedere nella tragica storia della sinistra socialdemocratica tedesca che venne annientata proprio per questa ragione. Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, i capi di quest’ala, erano dei grandi rivoluzionari, avevano sollevato critiche contro gli opportunisti della seconda internazionale perfino prima dei bolscevichi ed avevano un seguito di massa nella classe operaia. Nel momento decisivo non mancò loro né il coraggio né la determinazione, gli mancò lo strumento concreto senza cui la rivoluzione, anche se vincente, viene facilmente lasciata morire su un binario morto, come avvenne in Germania, in Italia e altrove. Sebbene riuscirono a creare un’organizzazione rivoluzionaria, questo passo venne fatto troppo in ritardo per le esigenze della rivoluzione tedesca. La borghesia tedesca, con l’incalcolabile aiuto della direzione riformista, riuscì a riprendersi. L’altro errore è quello di ridurre l’attività rivoluzionaria alla costruzione dell’organizzazione, senza collegare questo al radicamento nella classe operaia. In questa concezione settaria, la capacità di entrare in contatto con i lavoratori non serve a molto, il partito deve avere il programma corretto, criticare aspramente i riformisti e attendere. Per questa gente la totale ininfluenza sulle sorti della classe operaia non significa che c’è qualcosa di sbagliato nella propria politica, si tratta dell’arretratezza della classe. Storicamente i bordighisti sono stati i primi a portare avanti queste tesi, ma nel dopoguerra molti gruppi trotskisti gli hanno fatto concorrenza sul piano della virulenza settaria. Per i marxisti il segreto della costruzione del partito rivoluzionario passa per il lavoro nelle organizzazioni di massa. Le forme concrete con cui questo lavoro viene attuato dipendono da molti fattori e dunque variano molto tra i diversi periodi e i vari paesi, ma le finalità e i principi sono sempre gli stessi. La direzione dell’Internazionale Comunista elaborò il fronte unico. Trotskij, alle prese con una situazione ben diversa, elaborò la tattica dell‘entrismo. La nostra tendenza ha continuato questo lavoro nelle specifiche condizioni determinate dall’esito della seconda guerra mondiale e dagli eventi successivi.
Come abbiamo visto Pablo e Mandel proposero, alle sezioni dell’internazionale, una svolta verso le organizzazioni staliniste. Lungi dal costituire una proposta di lavoro in tali organizzazioni, questa tattica era intesa a un vero e proprio scioglimento delle sezioni. L’entrismo “sui generis”, come venne chiamato, era, più che altro, marxismo sui generis. Seppellendosi totalmente, non criticando mai la direzione stalinista, i militanti della quarta internazionale difficilmente acquisivano autorità e seguito nei partiti comunisti. Questo portava a frustrazione e spesso a sterzate estremiste, con un’uscita improvvisa dalle organizzazioni di massa. Di solito, con un curioso tempismo, questa uscita avveniva alla vigilia di sconvolgimenti che aprivano la strada alla costruzione di una sinistra nel partito appena abbandonato in quanto “irrecuperabile”. Questo alternarsi di opportunismo e di settarismo vanno di pari passo con una profonda sfiducia verso la classe operaia: prima non si critica la direzione perché i militanti “non capirebbero” e poi si esce dal partito perché “tanto la classe operaia non si muoverà per decenni” ecc.
La tendenza marxista si basa sul lavoro nelle organizzazioni di massa. Questo lavoro non solo non ostacola ma aiuta la costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria. Lungi dall’uscire appena si acquista un po’ di forza, questa tattica ha lo scopo di conquistare l’organizzazione alle idee del marxismo. Così venne fatto nella gioventù laburista negli anni ‘70, così occorre fare dovunque è possibile. L’autonomia formale dell’organizzazione non ha nessun ruolo necessario nell’indipendenza reale, politica. Si pensi alla Fgci, che era formalmente autonoma dal Pci. Lo stesso si è visto molte volte nella storia. Solo a inguaribili settari può sembrare che se l’organizzazione non sventola la propria bandiera apertamente, magari facendo tessere e eleggendo segretari, allora la classe operaia non la considererà seriamente. L’indipendenza sta nel programma e nei metodi che si difendono.

14. Addii e ricongiungimenti

Durante gli anni ‘60 il movimento trotskista rimane generalmente debole. Le condizioni oggettive non erano delle migliori ma ci furono comunque molte opportunità. I colossali errori politici tagliarono fuori la quarta internazionale da ogni sviluppo della lotta di classe. Essa perse anche l’unico partito di massa, il Lssp srilankese, che divenne riformista. Il Swp americano, che aveva formato una propria corrente dopo la scissione del ‘53, si riunificò con il SI sulla base del comune cedimento al castrismo. Da allora il Swp è divenuto una specie di ambasciata cubana negli Usa. Questo ha provocato forti lotte intestine e una serie di scissioni nel periodo 1964-1967. Con il Swp tornarono nell’internazionale tutti i gruppi che si erano scissi nel ‘51, tranne Healy in Inghilterra e Lambert in Francia. Così si assistette a una proliferazione di organizzazioni, nazionali e internazionali, che si richiamavano o si autoproclamavano quarta internazionale. Cercare di analizzare le differenze politiche tra tutti questi gruppi ha poco senso e pochissima utilità. Cercheremo invece, successivamente, di spiegare quali caratteristiche li accomunano.
La deriva presa dalla quarta internazionale proseguì. I nuovi eroi erano Castro, la guerriglia terzomondista e le direzioni nazionaliste di molti paesi arretrati (non è un caso che M. Pablo, segretario della quarta internazionale, finì nel 1965 a fare il ministro nel governo algerino di Ben Bella). Quando il SU passò ad appoggiare Castro, sperava, come già le altre volte, di essere accolto a braccia aperte. Castro invece, parlando a una conferenza nel 1966, denunciò “l’infiltrazione” dei trotskisti in America Latina. Ma le malefatte della burocrazia cubana non si arrestarono qui. Quando scoppiò il maggio francese, Castro, ormai totalmente succube del Cremlino, non lo appoggiò in nessun modo, cosa che, seppur demagogicamente, fecero gli stalinisti cinesi. Nel ‘68 Castro e il partito comunista vietnamita appoggiarono l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Ma nonostante questi crimini e nonostante l’ovvia impasse della guerriglia, al XIII congresso della quarta internazionale (nel 1969), Castro venne considerato un rivoluzionario e la guerriglia venne presa come modello della lotta di classe e ciò quando già in Europa era esploso un decennio di dura lotta operaia. Il tentativo di utilizzare quella che sembra in un dato momento la sinistra dello stalinismo, aveva anche un altro effetto negativo: quando la quarta internazionale era costretta ad ammettere i crimini del “trotskista inconscio” di turno, allora passava improvvisamente a identificare quel regime come bonapartista proletario, confondendo i militanti e la classe operaia. Così quando la quarta internazionale passò ad appoggiare Castro, caratterizzò la Cina come stato operaio degenerato e Mandel scrisse: “la Cina è diretta da una burocrazia che per sua natura non è diversa dalla burocrazia sovietica” (Fourth International, 5/1969). La posizione era corretta, e corrispondeva a quella assunta dal Rcp già venti anni prima, il problema è che fino a un momento prima si era affermato che la Cina era uno stato operaio “relativamente sano”. In questo modo si imitava il comportamento dei maoisti che alla morte di Stalin denunciarono un golpe in tutti i paesi orientali e il ritorno di questi al capitalismo di stato. Si avrebbe dunque questo patetico risultato: la classe operaia, dopo quarant’anni di socialismo, è arretrata così tanto da non riuscire a impedire alla borghesia di fare tranquillamente una controrivoluzionari e prendere il controllo dello stato. In realtà, se il socialismo avesse un simile effetto sulla coscienza di classe, ci sarebbe da dubitare seriamente che possa costituire una società superiore a quella attuale! D’altra parte solo cavillando in modo ridicolo si potevano scorgere delle differenze sostanziali tra l’Urss di Stalin e quella kruscioviana, se si eccettua una riduzione del culto della personalità. Questa convergenza nei metodi di analisi tra quarta internazionale e maoisti non era un caso, derivava dal tentativo di sostituire al duro lavoro di formazione dei quadri marxisti il superficiale radicalismo di un dirigente stalinista.

15. Dagli anni ‘70 al crollo dello stalinismo

Nel corso degli anni ‘70 la quarta internazionale come organizzazione ebbe un impatto assai modesto nella ondata di lotte di classe che colpì praticamente tutto il mondo. D’altra parte avevano seminato fiducia In Mao e raccolsero successi per il maoismo. In Italia questo processo si vide in modo eclatante. Nessuno più della sezione italiana della quarta internazionale si adoperò per far conoscere il pensiero di Mao in Italia. Quando scoppiarono le lotte, nel ‘68-’69, la sezione era da poco tempo indipendente, essendo stata cacciata in modo indecoroso dal Pci, ma quello che più contava era la sua posizione precedente sulla Cina: non solo subì delle scissioni maoiste, che per altro divennero estremamente più forti, ma in genere rimase del tutto alla coda del movimento, dato che ormai tutti i gruppi si dichiaravano maoisti e lo erano in modo molto più conseguente.
Già da quel periodo il SU non fu altro che una federazione di sette, più forte di organizzazioni rivali ma molto meno coeso politicamente. Negli anni ‘80, tolta la situazione inglese di cui diremo in seguito, l’impatto politico rimane scarso. Con l’arrivo di Gorbaciov la quarta internazionale intravide il “trotskista inconscio” di ultima generazione. Costui venne addirittura dichiarato strumento della rivoluzione politica. Altri gruppi trotskisti si accodarono in questa opera di beatificazione. Healy, dirigente del Wrp inglese, volò addirittura a Mosca per incontrare l’eroe.
Così come la nascita dello stalinismo aveva provocato nuovi interrogativi e nuove sfide per i rivoluzionari, così come il suo sviluppo aveva prodotto infinite spaccature nella quarta internazionale, così il suo crollo non ebbe minori conseguenze. Mentre molti “trotskisti” dichiaravano l’appoggio incondizionato a Gorbaciov, altre sette passavano alla difesa incondizionata della ala più stalinista della burocrazia. Questo processo diveniva eclatante con il collasso finale dello stalinismo. La demoralizzazione per il crollo dello stalinismo condusse queste varie organizzazioni a ogni sorta di impazzimento. Una parte passò ad appoggiare i crimini dello stalinismo. Così gli spartacisti cominciarono con il rimpiangere la morte di Andropov e per sostenere la repressione degli operai polacchi. Finirono nell’89 per allearsi con l’ala più stalinista della burocrazia della Ddr. Lo stesso Posadas, un tempo un dirigente trotskista di un certo livello, terminò la sua vita come un sostenitore dello stalinismo. Un’altra parte, tra cui il SU, passò definitivamente al riformismo. Al XIII congresso della quarta internazionale (1991), venne decretata la fine del ciclo storico della rivoluzione socialista e del ruolo della rivoluzione d’ottobre. Questo condusse a una decomposizione organizzativa notevole: uscirono il Swp americano, la Lcr spagnola ecc. Infine nei documenti del XIV congresso (1995) osserviamo il definitivo approdo al riformismo, che si ritrova nella parabola politica dei mandelisti italiani stampella del bertinottismo. Ma gli impazzimenti delle sette sono possibili in ogni direzione. Se da una parte c’erano gruppi sedicenti trotskisti che appoggiavano ogni crimine degli stalinisti, dall’altra parte si fecero largo posizioni che appoggiavano nei fatti l’imperialismo. Una parte dei gruppi provenienti dalla quarta internazionale (morenisti ecc.) già da decenni sosteneva una posizione simile a quella bordighista di “terzo campo” [9] . Secondo loro l’Urss, sebbene non uno stato capitalista, di fatto aveva stretto un’alleanza organica con l’imperialismo per la divisione del mondo. La burocrazia era divenuta in un certo senso una classe e la controrivoluzione capitalista non avrebbe dunque comportato un passo indietro per questi paesi. La dissoluzione dello stalinismo ha dimostrato, ancora una volta, come la posizione verso l’Urss non fosse una questione “teorica”, “astratta”, come i settari hanno sempre sostenuto contro Trotskij, ma avesse precise e strategiche ripercussioni sull’azione politica. Coloro i quali definivano l’Urss uno stato capitalista o comunque un alleato dell’imperialismo, si trovavano a difendere l’aggressione imperialista che negli ultimi anni si è avuta verso questi regimi, anche se in forme “democratiche”, rispetto agli anni ‘30, quando Hitler minacciava militarmente il ritorno al capitalismo. Una posizione non basata sull’analisi di Trotskij è dunque servita a disarmare la classe operaia sovietica nei confronti della controrivoluzione capitalista. Non solo queste correnti hanno considerato il ritorno al capitalismo un passo avanti per il proletariato russo, ma hanno anche concepito una teoria, strana finché si vuole, secondo cui la natura di classe dei partiti comunisti era legata esclusivamente al suo rapporto con Mosca. Ne consegue che ora i partiti comunisti non sono più partiti operai, se si eccettua l’eccezione del Prc che molti, all’estero, considerano un “vero” partito comunista. Cosa siano allora il partito comunista francese, o sudafricano, o i due partiti comunisti indiani, questo è un mistero. Anche qui si vede come errori teorici comportino dei disastri completi nel lavoro politico concreto.
Negli ultimi anni, con la progressiva e non conclusa scomparsa del bonapartismo proletario dal mondo, sembra eliminata una fonte di divisione tra il movimento trotskista e altre componenti socialiste. In realtà l’analisi dello stalinismo era solo il nodo più eclatante di distinzione tra marxisti e revisionisti di ogni sorta. Non solo i trotskisti non sono più vicini alle direzioni dei partiti operai dopo il crollo dell’Urss, ma anzi ne sono più distanti che mai, dato che il collasso dello stalinismo è stata un’ottima scusa per una svolta a destra di quasi tutti i partiti socialisti ed ex stalinisti. Come negli anni ‘30, come negli scorsi decenni, i trotskisti mantengono il loro ruolo di avanguardia rivoluzionaria del movimento operaio. Utilizzando la massima flessibilità tattica e la massima rigorosità teorica e politica, possiamo sperare di conquistare fasce sempre nuove di militanti, di giovani alle idee del marxismo che si è liberato finalmente di questo “falso fratello”.

16. Le sette

La storia del trotskismo, come detto, è una storia di innumerevoli rotture. In quasi ogni nazione vi sono innumerevoli gruppi trotskisti, e con rare eccezioni emanano tutti quell’inconfondibile aria di isterismo settario che li isola dal mondo circostante. Tolte poche eccezioni, questi gruppi non hanno nessun peso nel movimento operaio del proprio paese e la loro insignificanza, dati i metodi usati, non tende a scomparire. Questo aiuta le spaccature e la disperazione. Non solo pensano che aumentando l’astio verso le organizzazioni ufficiali riusciranno ad attrarre qualcuno, ma sono portati a continue scissioni: perché rimanere uniti dato che comunque si è insignificanti? Tentare di analizzare quali divergenze separino le varie organizzazioni richiederebbe anni di tempo e forti dosi alternate di camomilla ed eccitanti. Cosa più importante avrebbe un’utilità prossima allo zero. Giova invece cercare quegli elementi comuni che contraddistinguono i gruppi settari, spesso anche non trotskisti, e che derivano dalla natura stessa delle sette. Infatti queste caratteristiche derivano da una prospettiva politica errata, da metodi distorti.
Innanzitutto la setta tipica utilizza buona parte del proprio materiale pubblico, a volte quasi tutto, per attaccare altre sette e per descrivere la storia della propria setta, ritenendo fondamentale che i disgraziati che le si avvicinano abbiano subito chiara la posizione di quest’ultima nei confronti di tutte le altre sette. In secondo luogo hanno un atteggiamento isterico, aggressivo e provocatorio nei confronti delle organizzazioni operaie. Quanto più insultiamo i dirigenti riformisti, ragiona la setta, tanto più gli operai più arrabbiati si avvicineranno. Quando poi gli operai, arrabbiati, effettivamente si avvicinano, è sempre per cacciarli da riunioni e assemblee, esasperati dal tono della loro propaganda. Inoltre, nel loro materiale danno sempre lo stesso aggettivo alla stessa persona (soprattutto i maoisti ma non solo) e nominano persone note a meno di mille persone in tutto il mondo senza spiegare chi sono e perché le odiano. Hanno una visione unilaterale di ogni problema. Anche se si rifanno letteralmente a Lenin o a Trotskij, riescono a distorcere enormemente il loro pensiero, isolando alcune tesi e costruendoci sopra la giustificazione a qualche posizione scorretta. Così sulla guerra in Bosnia metà delle sette difendeva l’autodeterminazione dei popoli (“come diceva Lenin”) senza analizzare che cosa concretamente significava questa tesi nel contesto dato. In questo modo divenivano l’ala “rivoluzionaria” dell’aggressione imperialista. L’altra metà appoggiava la reazionaria burocrazia stalinista (“come diceva Trotskij”), approvando ogni azione criminale di quest’ultima. La cosa forse più curiosa che invariabilmente accomuna le sette è la fissazione per uno specifico argomento. Quando si legge la stampa di un gruppetto per un certo periodo, rapidamente ci si accorge che non differisce sostanzialmente dagli altri più simili a lui se non per alcune manie e fissazioni quasi paranoiche. Queste manie vengono quasi sempre dal guru della setta, leader carismatico e politico. Nella mente di questo dirigente si sono prodotte queste manie nel corso della lotta di frazione che ha occupato i nove decimi della sua vita adulta. Anziché stemperare le deviazioni che vengono dall’isolamento nazionale, la natura della setta le accresce e le coltiva. Dopo qualche anno sono come un morbo inestirpabile. Naturalmente la gravità di queste fissazioni è molto varia. Di solito, se la setta ha una certa consistenza, la dialettica tra i dirigenti le può ridurre, ma non è detto. In molti casi, si assiste a comportamenti stereotipati (un certo dress code, certi modi di dire) che discendono solitamente dal guru. L’ultima caratteristica è l’attaccamento quasi morboso ad alcuni brani classici del marxismo che diventano, nelle menti dei settari, un feticcio slegato dalla teoria marxista complessiva e non evitano svolte politiche le più assurde.
Non si deve credere che queste osservazioni sulle sette abbiano una base “psicologica”. Sono invece la conseguenza pratica di deviazioni politiche. La foga isterica con cui spesso il settario approccia il manifestante, deriva da un’educazione politica distorta. L’idea che a un lavoratore interessi sapere per filo e per segno la storia del “partito rivoluzionario” con cui ha avuto la disgrazia di venire in contatto non è che la riflessione verso l’esterno del metodo con cui la setta viene costruita. È ovviamente facile scorgere differenze anche profonde tra i vari gruppi. Tipicamente quelli che hanno lavorato o lavorano nelle organizzazioni di massa tendono ad essere più “normali”. Inoltre le sette che vengono dal Nordamerica tendono a essere le più isteriche, forse perché provengono da un ambiente più isolato. Comunque, scrivendo ai bordighisti, Trotskij anticipò l’inevitabile vicolo cieco in cui una setta, isolata dalle masse, chiusa nel suo guscio nazionale, deve finire:

“Una corrente proletaria rivoluzionaria può evidentemente, all’epoca dell’imperialismo, sorgere e determinarsi in un paese piuttosto che in un altro, ma questa corrente non può esistere e svilupparsi in un solo paese, essa deve l’indomani della sua creazione cercare dei collegamenti internazionali, una piattaforma internazionale, perché è su questa via soltanto che si può trovare la correttezza di una politica nazionale. Una tendenza invece che per degli anni resta nazionalmente chiusa è votata inevitabilmente alla degenerazione.” (Scritti sull’Italia, p. 155)

17. Conclusioni

la storia non avrebbe senso se non ci insegnasse qualche cosa – L. Trotskij.

L’analisi delle lotte tra le correnti nel movimento operaio ha un ruolo importante nella comprensione dei compiti della direzione rivoluzionaria. È uno studio indispensabile ma ovviamente non sufficiente per consolidare un nucleo di quadri marxisti. Molti scontri descritti sembrano ora del tutto lontani dalla lotta politica odierna, ma questo è vero solo superficialmente. Innanzitutto alcuni problemi chiave sono ancora scottanti (per esempio il lavoro nelle organizzazioni di massa), inoltre, come ricordato, senza l’analisi dello sviluppo sociale, economico, politico e teorico del passato, sarà facile essere colti di sorpresa dagli sviluppi futuri. Chiudiamo citando ancora una volta Trotskij, che spiegò con la sua consueta profondità, il ruolo della teoria marxista per una tendenza rivoluzionaria:

“Il marxismo non è una bacchetta per maestri di asilo al di sopra della storia, ma un metodo di analisi sociale delle vie e delle forme dello sviluppo storico sociale”.

[1]Il termine trotskismo fu coniato in senso dispregiativo dalla burocrazia stalinista a indicare una deviazione politica rispetto alla presunta ortodossia bolscevica. In questo senso, il termine subì una sorte analoga a quello di “leninismo”, che per i revisionisti socialdemocratici era la forma moderna del blanquismo. Con trotskisti si passò poi a indicare i rivoluzionari che si rifacevano al pensiero di Trotskij.
[2]Il partito bolscevico era sempre stato un’organizzazione di quadri rivoluzionari fino al 1917. Nel periodo che va dal febbraio all’ottobre 1917 divenne un partito operaio di massa. Ma anche dopo la rivoluzione, rimase un partito di rivoluzionari scelti e l’accesso era notevolmente selettivo. Questa tradizione di alto livello politico dei militanti era un ostacolo alla burocrazia. Nel 1924 venne lanciata una “leva leninista” che servì ad annacquare il vecchio nucleo di militanti con una massa di iscritti, anche onesti e devoti alla rivoluzione, ma più facilmente manovrabili. A ciò va aggiunto che moltissimi quadri storici del partito erano stati falcidiati dalla guerra civile. Infine occorre notare che una serie di carrieristi e servitori dello zarismo entrarono nel partito come mezzo per difendere i propri privilegi. L’opposizione richiese, tra l’altro, un ritorno ai metodi leninisti di reclutamento e a una scrematura degli iscritti. Questo venne rifiutato. Invece, anni dopo, la burocrazia lanciò le epurazioni come strumento per portare a termine lo svuotamento del partito espellendo i quadri legati alle tradizioni del partito di Lenin.
[3]Nei paragrafi conclusivi del Programma di Transizione Trotskij risponde a queste posizioni.
[4]Così come, definendo “marxisti”, i partiti stalinisti, occorre chiarire, con le virgolette, l’accezione totalmente distorta con cui si può utilizzare il termine in quel contesto, così occorrerebbe distinguere tra trotskisti e “trotskisti”. In questo contributo abbiamo evitato questa distinzione confidando nella capacità discriminatoria del lettore.
[5]Il SI: segretariato internazionale. Massimo organo di direzione della quarta internazionale. Si definirà così fino al 1963, quando, con il ritorno di alcuni gruppi che si erano scissi dieci anni prima, muterà nome in SU (segretariato unificato).
[6]Questa corrente, diretta da un ex membro del Rcp britannico, T. Cliff, aveva esposto le sue posizioni già nel ‘48, ma con la guerra di Corea del ‘51 si distinse definitivamente dalla quarta internazionale, dichiarandosi neutrale nella lotta tra stalinismo e imperialismo americano. Formerà la corrente dei “socialisti internazionali” noti soprattutto per la sezione britannica (il gruppo Swp).
[7]Anche in questo si vede l’incolmabile distanza tra i marxisti e ogni genere di setta. Trotskij, a differenza di questi epigoni, non condusse mai nessuna battaglia per questioni terminologiche. Era invece estremamente flessibile sulla questione delle definizioni. Il punto, per lui, come per noi, era stabilire la natura concreta di questi stati.
[8]Sembra che questa posizione dell’impossibilità di una crescita del capitalismo, sia stata difesa in modo assoluto dall’organizzazione lambertista, che ancora negli anni ‘60 negava che il capitalismo avesse avuto una crescita dopo il 1913.
[9]A rigore la posizione di “terzo campo” si riferisce a una tendenza ex trotskista americana (Shachtman ecc.), ma nel contesto si capisce a cosa ci stiamo riferendo.

Quel che il presente sta dicendo di voi, commenti a margine del libro del compagno Ferrero

Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero ha di recente pubblicato un libro (Quel che il futuro dirà di noi. Idee per uscire dal capitalismo in crisi e dalla seconda repubblica) che fa il punto sulla crisi, sulla situazione politica italiana e sul partito.

Questo lavoro segna, almeno nelle formulazioni utilizzate, un progresso rispetto alle passate elucubrazioni teoriche dei dirigenti di Rifondazione, le “novità” del periodo bertinottiano, un miscuglio confuso di radicalismo verbale e moderatismo reale, con la rinuncia al ruolo di avanguardia dei comunisti. Tale mix faceva sì che il partito si accodasse a qualunque movimento, senza provare in alcun modo a fargli fare un salto di qualità, a giocare appunto un ruolo di avanguardia, offrendosi invece come sponda istituzionale, senza riuscire a far avanzare in alcun modo le istanze, per quanto parziali e moderate, del movimento stesso. Non meglio andava per le correnti nostalgico-togliattiane, giunte a Rifondazione soprattutto dal Pci, che univano, e uniscono, a un moderatismo imbarazzante sul piano politico riferimenti teorici almeno altrettanto imbarazzanti (se non a Stalin in persona ai cascami dello stalinismo nelle sue varianti moderne). Sotto questo profilo, va dato atto a Bertinotti di aver superato la tradizione stalinista egemone per decenni nel movimento operaio italiano, anche se lo stalinismo non è l’unica tradizione politica controrivoluzionaria della storia.

Ad ogni modo, come diceva Lenin, l’esperienza insegna, e la grave crisi del partito costringe la direzione a fare i conti con il passato di Rifondazione per cercare di garantirsi un futuro. Il libro, ha, in questo senso, il merito dell’autocritica e sottolinea l’importanza del marxismo come metodo di analisi e di azione.

Tuttavia, l’autocritica e il riconoscimento che solo il marxismo può aprire una speranza di riscossa per il partito sono solo il primo passo. Molto spesso, ad analisi e proposte astrattamente condivisibili, il lavoro fa seguire proposte vaghe o incoerenti, e manca una qualunque articolazione della concreta strategia che Rifondazione dovrebbe mettere in campo per uscire dall’impasse.

In questo articolo analizzeremo principalmente gli aspetti teorici e di prospettiva politica generale del testo, visto che altrove discutiamo e polemizziamo sui temi di più immediata attualità della gestione Ferrero.

L’importanza della storia del movimento operaio

Sotto il piano teorico, il libro fa emergere due punti deboli principali. Il primo è l’assenza di un’analisi dello sviluppo storico del marxismo. Per non litigare con nessuno nel partito, soprattutto con le correnti legate alla tradizione stalinista, tutto ciò che viene dopo Marx è accomunato e rifiutato dall’autore, anche se di passata viene detto che Lenin aveva ragione contro Kautsky nel fare la rivoluzione russa. Ora, analizzare lo sviluppo del marxismo è fondamentale per il futuro del partito. Non si tratta di una futile esegesi storica ma della battaglia concreta di oggi. Le ragioni della lotta dei marxisti contro il riformismo di Bernstein e contro il centrismo falsamente radicale di Kautsky, o la lotta di Lenin e Trotskij contro le conseguenze politiche della degenerazione del partito comunista russo si ripropongono, ovviamente in forme diverse, in ogni fase della storia del movimento operaio. Bernstein negava la validità del marxismo sostenendo che non era vero che il capitale si andava concentrando e che bisognava allearsi con i liberali contro i latifondisti prussiani. Gli stalinisti difendevano la necessità di allearsi con la borghesia democratica rimandando a un imprecisato futuro la lotta per il socialismo. Queste politiche hanno condotto il movimento operaio al disastro. Sono le stesse politiche che la direzione del Prc ha fatto sue, in circostanze differenti, negli anni passati. Se non si capisce perché la politica dei Fronti Popolari degli anni ‘30 era un vicolo cieco, si finisce a fare il ministro in un governo caricatura dei Fronti Popolari settant’anni dopo.

Evitare diplomaticamente di affrontare le questioni più spinose del movimento comunista non è una buona pratica. Ferrero sostiene: “il punto non è quindi pensare che un’analisi critica del passato sia sufficiente a dotarsi della “linea giusta”, né tanto meno il pensare che si tratti semplicemente di “tornare” al passato” (p. 7). Ora, quell’analisi non basta né basta riproporre programmi e parole d’ordine del passato, tuttavia comprendere gli errori del movimento operaio è necessario per non ripeterli. Non per nulla, è lo stesso Ferrero a partire da un’analisi del passato. Giustamente, si chiede infatti, perché la crisi della sinistra italiana è così profonda? Perché, almeno dal 1980 a oggi, ogni volta che è andata al governo, ha messo in atto politiche devastanti per i suoi referenti sociali?

L’autore, nel rispondere, parte dal movimento del ‘68-’69, che fu un “movimento rivoluzionario a tutti gli effetti” che poneva “una domanda di trasformazione sociale radicale” a cui “la sinistra storica di allora non è stata in grado di rispondere positivamente”. Che le direzioni del Psi e del Pci (per non parlare dei sindacati) non fossero pronte a usare quel movimento per abbattere il capitalismo non dovrebbe stupire. Psi e Pci – indipendentemente delle dichiarazioni formali – erano partiti riformisti, ovvero si incaricavano di piegare il movimento operaio alle esigenze della borghesia italiana; è dunque scontato che frenassero e portassero fuori strada le lotte, fino alla farsa di Lama che andò a provocare gli studenti davanti alla Sapienza prima di lanciare la svolta dell’Eur. In questo non c’era nulla di nuovo. Era almeno dal ‘45 che i dirigenti di queste organizzazioni svolgevano tale ruolo. Se non si capisce questo non si comprende la deriva del gruppo dirigente del Pci. È da qui che viene quello che lo stesso Ferrero chiama “lo smarrimento strategico” di quel partito. Alla fine degli anni ‘70, il capitalismo italiano, in crisi dopo dieci anni di lotte operaie, tenta di rimettersi in piedi. Il Psi si incarica di guidare la riscossa padronale, il Pci non intende contrapporsi realmente a questa politica ma nemmeno la asseconda attivamente; rimane quindi nel guado per dieci anni, alla fine dei quali giunge il crollo dello stalinismo, utilizzato dal gruppo dirigente come pretesto per allineare la simbologia, la “narrazione del partito” come la chiamerebbe Vendola, alle sue politiche concrete e il più grande partito comunista dell’Europa occidentale divenne in pochi mesi il più vacuo partito socialdemocratico del continente, un partito senza strategia e senza riferimenti teorici e programmatici di alcun tipo. La svolta di Occhetto, che per molti onesti militanti del Pci fu un fulmine a ciel sereno, è invece la conseguenza finale di una politica cinquantennale di collaborazione di classe. Se la svolta di Salerno di Togliatti rese il Pci una forza adatta a deragliare la rivoluzione antifascista, integrata seppure con alcune peculiarità nel meccanismo parlamentare borghese, se il compromesso storico di Berlinguer resuscitò una Dc schiacciata dalle lotte, con la Bolognina si confermarono, oltre ogni ambiguità, il senso e le ragioni delle strategie precedenti del gruppo dirigente del Pci. Occhetto è il legittimo erede testamentario di Togliatti, Longo e Berlinguer, per questo i (pochi) togliattiani e berlingueriani che non si schierarono con la svolta non riuscirono a opporvi nessuna resistenza, a fare presa sui militanti e se ne dovettero andare, non essendo riusciti nemmeno a costituire una seria corrente di sinistra nel Pds.

Ferrero osserva giustamente che lo scioglimento ebbe un effetto devastante per la classe lavoratrice e la sinistra, tuttavia nelle critiche formulate alle politiche e all’ideologia di quei dirigenti rimane a un livello superficiale di analisi. Si critica il “produttivismo”, la riduzione dell’attività del partito al suo ruolo istituzionale, ma questi sono tutti sottoprodotti del riformismo: il gruppo dirigente del Pci si era dato ormai da decenni il ruolo di modernizzatore del paese, si proponeva come alleato della cosiddetta borghesia progressista. Movimenti come quello del ‘68-’69 erano letti dalla direzione del Pci in questa logica. Utili perché smuovevano le acque e facevano fare passi avanti al partito, ma non appena rischiavano di sorpassare la logica di un capitalismo più moderno, i movimenti erano tacciati di estremismo e il Pci utilizzava i suoi considerevoli mezzi per dividerli o distruggerli, con la preziosa alleanza della burocrazia sindacale. Non si tratta dunque di alcuni elementi di distorsione in un corpo sano, ma della funzione storica che i dirigenti del Pci si erano dati almeno dal ‘43. Detto diversamente, del Pci c’era da salvare la dedizione e la combattività dei suoi militanti, null’altro.

In questo senso, il cambiamento del nome e l’ingresso nei salotti buoni della borghesia italiana, pagati con l’appoggio ai governi Amato e Ciampi, sono stati la logica conseguenza di decenni di lavoro di “avvicinamento” e Ferrero fa bene a ricordare che impostazione avevano questi governi, che, con il pieno appoggio dei vertici del Pds e della Cgil, cominciarono le politiche di macelleria sociale che durano ancora oggi. Viene anche giustamente osservato che all’epoca tutta l’intellettualità di sinistra invitava Rifondazione a partecipare a quello scempio, a cominciare da Il Manifesto, il che non sorprende, trattandosi di correnti della sinistra riformista, correnti che, come detto, avevano e hanno l’obiettivo di aiutare il capitalismo a migliorarsi, non di abbatterlo.

Il partito rifiutò quel ricatto e da lì nacque la sua stagione più feconda, quella in cui decine di migliaia di lavoratori e di giovani si raccolsero attorno a Rifondazione, vista non solo come l’unico bastione contro le politiche di tagli ma anche come una boccata di aria fresca dopo decenni di grigio conformismo dei dirigenti del Pci. Purtroppo, il gruppo dirigente tenne fede a questa battaglia per pochi anni. Nel ‘94 Berlusconi vinse contro un confuso schieramento di centro-sinistra con un incomprensibile nome (“i progressisti”) e provò a fare una vera politica thatcheriana. Durò pochi mesi. Da allora ha imparato la lezione e le “riforme” ossia i tagli, li ha fatti fare agli altri. Così, dopo il primo Berlusconi, vennero governi tecnici, appoggiati dal centro-sinistra, e poi il governo politico del centro-sinistra del ‘96, con i provvedimenti disastrosi ricordati anche dal segretario, come il lavoro interinale. Dopo anni di logoramento, Rifondazione fu costretta a uscire della maggioranza (assicurava l’appoggio esterno senza ministri nel governo) subendo una dolorosa scissione, ben peggiore che all’epoca di Dini, mentre D’Alema, dando prova di senso di responsabilità (verso il padronato), bombardava Belgrado e regalava Telecom ai “capitani coraggiosi”. Dopo anni di questa medicina, la nuova vittoria di Berlusconi era scontata.

La lezione però non bastò e il partito si candidò nuovamente alla guida del paese con il centro-sinistra, questa volta con incarichi istituzionali (Bertinotti presidente della Camera, Ferrero ministro). Del secondo governo Prodi, il segretario dice che “non fece grossi danni ma attuò una politica che deluse profondamente le aspettative che aveva sollevato” e terminò con “un disastro per Rifondazione comunista”. Ingabbiata dentro governi il cui scopo era “modernizzare” il capitalismo italiano a spese dei lavoratori, Rifondazione non aiutò a portare le istanze dei movimenti nelle istituzioni ma li deluse, disperse un patrimonio immenso di lotte operaie e territoriali.

Le scelte politiche di Rifondazione avrebbero potuto condurre a un esito diverso? In realtà, la storia del movimento operaio dimostra che l’esito era scontato sin dall’inizio. Il compromesso tra capitale e lavoro, su cui hanno prosperato le socialdemocrazie, si basava su particolari condizioni da tempo scomparse (il boom post-bellico). La fragile struttura produttiva italiana, tenuta su con gli aiuti di Stato e le svalutazioni, non poteva ammodernarsi se non schiacciando i diritti dei lavoratori e soggiogando i sindacati, accaparrandosi le aziende di Stato per due soldi. Per questo era inevitabile che i governi di centro-sinistra facessero politiche antioperaie. Il marxismo, diceva Lenin, è una guida per l’azione. Questa guida ha permesso ai marxisti del partito, già prima dei due governi Prodi, di delinearne l’inevitabile decorso. Al VI congresso di Rifondazione, i marxisti presentarono la mozione “Rompere con Prodi, preparare l’alternativa operaia”. Fosse stata scelta quella politica allora, il partito non sarebbe alle corde oggi. Studiare la storia del movimento operaio e trarne le indicazioni corrette per il futuro è un elemento fondamentale per dirigere un partito comunista.

Il programma di transizione

Il secondo punto teorico decisivo che si affronta nel testo riguarda la costruzione e la funzione di un programma per il partito comunista, un aspetto che è al centro del dibattito politico tra i comunisti almeno dalla famosa critica al programma di Gotha formulata da Marx nel 1875. La Seconda Internazionale, anche nel suo periodo d’oro, aveva rimosso, nella sostanza, il nucleo rivoluzionario del marxismo pur rivolgendogli un omaggio formale. Sotto il piano teorico ciò avveniva con la divisione del programma in una parte puramente ideologica e retorica (il programma massimo) che non orientava in nulla l’azione dei partiti socialisti e in un programma minimo di rivendicazioni para-sindacali di miglioramento delle condizioni di vita immediate delle masse, peraltro ampiamente contrattabili al ribasso quando la situazione economica e politica lo imponeva.

Tale natura è ben visibile nel programma di Erfurt, scritto in un momento decisivo del Spd quando, con il congresso di Halle del 1890, si strutturava come partito operaio moderno, con una direzione centralizzata nazionale, un organo di stampa centrale, ecc. Il compito di stendere il programma fu dato a Kautsky, allora il più eminente teorico del partito. Sebbene rispetto al programma di Gotha rappresenti un indubbio passo avanti, manteneva la suddivisione programma minimo-programma massimo. La dicotomia tra massimalismo astratto e assenza di una concreta strategia di lotta emergeva in questo: il programma era rigido su questioni politiche astratte, generali, ma non aveva nessuna rivendicazione che partendo dei problemi del presente aiutasse ai lavoratori a trarre conclusioni rivoluzionarie. Questo implicava un totale scollamento tra l’obiettivo (accettato formalmente) della rivoluzione socialista e la pratica politica della socialdemocrazia. Questi punti deboli non sfuggirono al vecchio Engels che scrisse a Kautsky: “dimenticare i grandi punti di vista principali di fronte agli interessi immediati del giorno, questo lottare e agognare per i successi momentanei senza preoccupazioni per le conseguenze ulteriori, questo abbandonare l’avvenire del movimento in favore del presente…è e sarà sempre opportunismo”.

La prima guerra mondiale s’incaricò di dimostrare quanto le preoccupazioni di Engels fossero fondate: l’Internazionale Socialista venne distrutta in un’orgia di sangue in cui militanti della stessa organizzazione si sbudellavano l’un l’altro nelle trincee di mezza Europa.

Nell’epoca che ne seguì i marxisti hanno cercato di elaborare una strategia per la creazione di un programma che superasse la frattura tra rivendicazioni minime e obiettivo finale. Il prodotto finale di questa elaborazione teorica è il programma di transizione di Trotskij (Il testo è stato ripubblicato in italiano nel 2008 a cura della AC editoriale (cfr la presentazione del libro: http://www.marxismo.net/content/view/3205/170/). La logica del programma di transizione è di proporre una serie di rivendicazioni attuabili singolarmente in un contesto capitalistico ma che, considerate nel loro insieme, sono in grado di spingere la società in una direzione alternativa, ponendo le basi per una trasformazione radicale. La singola rivendicazione, o alcune di esse, possono essere attuate da governi socialisti o persino borghesi, ma il punto è come le diverse rivendicazioni operano sinergicamente per uscire dalla crisi a spese della borghesia. Ovviamente, il programma cambia con i tempi e con le circostanze, ma la sua logica rimane valida anche oggi: lungi dal tamponare la crisi del capitalismo a spese dei lavoratori, il programma rifiuta di farsi carico della sua salvezza e pone le basi per una transizione. Soprattutto, il programma da una prospettiva unitaria alla classe, una leva da usare per unificare le varie lotte che esplodono, ponendo la questione fondamentale: chi comanda, chi deve gestire le forze produttive, chi deve decidere cosa si produce, in quale quantità, con quali tecnologie, con quali costi e a profitto di chi.

Al di fuori di questa logica, se non si pone la questione del potere, le singole proposte non spingono la lotta su un piano più elevato e non innescano il cammino necessario alla trasformazione. Da qui, la logica rinunciataria del partito, quando c’erano le condizioni per dirigere da comunisti i movimenti di lotta per quasi vent’anni. Da qui, l’incapacità di proporre un programma organico che affronti la crisi storica del capitalismo.

Il partito

La seconda parte del libro è dedicata al partito. Ferrero dice giustamente che Rifondazione costituì una novità, ruppe il continuo spostamento a destra dei due partiti storici della sinistra italiana, tenne aperta una prospettiva di alternativa sociale. Così facendo divenne un polo d’attrazione per importanti realtà operaie e giovanili, cosa che si riflesse anche elettoralmente, come si vide alle elezioni comunali di Milano e Torino nel ‘93, quando scavalcò il Pds arrivando, anche al 15% dei voti. Quel che successe dopo lo abbiamo già accennato. La storia dell’ultimo quindicennio del Prc si può riassumere così: il partito si avvicina al potere, subisce una sconfitta politica, si spacca, giura di non farlo più e dopo un po’ ci ricasca e ripete l’errore su scala più grande, subendone un danno maggiore. La prima volta, i “comunisti unitari” (le cui posizioni pro governo Dini, come ricorda Ferrero, erano sostenute anche da dirigenti come Vendola che però rimasero nel partito). La seconda volta successe alla fine del primo governo Prodi, con l’uscita dei cossuttiani e il processo mediatico cui furono sottoposti il Prc e Bertinotti. L’ultima volta, la debacle terribile del secondo governo Prodi e l’uscita di buona parte del gruppo dirigente assieme a Vendola e allo stesso Bertinotti.

Il segretario lega questo ciclo ricorrente alla “trappola del bipolarismo”, obiettivamente, una non spiegazione. Ferrero ha ragione a sostenere che il bipolarismo è una profonda lacerazione della democrazia, tuttavia, sostenere che per colpa del bipolarismo non si parla di programmi, ma di slogan e diventa centrale “l’algebra metafisica delle alleanze” significa confondere causa ed effetti. Queste tendenze ci sono in tutti i paesi. È la logica istituzionalista in cui il fine del partito si riduce a prendere poltrone che porta a rovesciare i termini della realtà. Non è la legge elettorale a determinare i rapporti di forza. Anche con un sistema sostanzialmente proporzionale, un partito del 3% come il nostro dovrebbe porsi il problema di come influenzare “gli altri”. Prendiamo il caso greco. Il Pasok per anni ha raccolto attorno al 40-45% dei consensi, il partito comunista il 7-8% mentre l’antenato di Syriza (il Synaspismos), politicamente affine a Rifondazione, era confinato a percentuali infime. La crescita di Syriza dipende dal proporzionale o dalle politiche fallimentari del Pasok con cui Syriza ha sempre rifiutato di allearsi? E se domani passasse una legge proporzionale in Italia, si ricomincerebbe a parlare di politica “vera” e non di slogan, cricche e veline? Dire che la Linke va bene perché c’è il proporzionale è ridicolo. In alcune lander La Linke ha il 30%, un peso che Rifondazione si sognava anche nei periodi migliori. Il problema, semmai, è che vi sono correnti della Linke che propongono una sorta di Ulivo alla tedesca. La storia di Rifondazione, sotto questo profilo, dovrebbe essere una guida per evitare il ripetersi di errori clamorosi in Germania e in altri paesi europei.

Con onestà intellettuale, Ferrero ha inserito nel libro un paragrafo , “gli errori fondamentali”, in cui si assume la responsabilità delle sconfitte anche delle precedenti gestioni del partito. Ricorda come si sia passati dal movimentismo all’elettoralismo senza valutarne gli effetti, evidenzia l’errore di pensare che l’Italia potesse essere cambiata dall’alto, dal parlamento, ricorda la gestione del partito a maggioranza contro i compagni che criticavano l’appoggio a Prodi che costrinse il partito a difendere la finanziaria di Padoa Schioppa. Li maturò il disastro perché emerse oltre ogni dubbio la totale inutilità del partito come ala sinistra della coalizione. Seguirono la caduta del governo e le elezioni anticipate in cui il partito subì una pesante sconfitta: “chi voleva a tutti i costi battere Berlusconi votò Veltroni. Chi era deluso dal governo ci considerava corresponsabili della situazione e si astenne” (p. 52). Da qui la rottura del gruppo dirigente del partito. L’attuale segretario ha almeno il merito di aver fatto autocritica ma purtroppo, come vedremo, prepara analoghi errori per il futuro.

Sulle vicende interne al partito il segretario sostiene che “lo stalinismo non è morto” e che c’è chi tenta di distruggere il partito con una “scissione a stadi”. Tutto ciò è vero ma, di nuovo, si compie un’analisi superficiale di determinate correnti politiche. Lo stalinismo non si sostanzia nel calunniare l’avversario o nel manovrare sottobanco. Ricorre certo a questi strumenti, ma perché i metodi in politica sono il frutto dei programmi che servono a realizzare. Lo stalinismo è innanzitutto un’analisi scorretta della società capitalista e un programma di azione che, negando nei fatti la lotta per il socialismo, lega mani e piedi dei lavoratori alle sorti della “democrazia”. Sono questa analisi e questo programma a essere nefasti per i lavoratori; poi, che alcuni dirigenti di provenienza cossuttiana adottino metodi scorretti di polemica politica è un effetto e non il più preoccupante. Alla fine, lo stalinismo che non è morto nel partito è la rincorsa al centro, la retorica dell’unità che nasconde l’istituzionalismo più conclamato, in una parola: il riformismo.

Di fronte a questa situazione, alla crisi del partito, Ferrero definisce delle proposte per “riprendere il cammino della rifondazione” e pone tre assi strategici: i) l’autonomia dal Pd e la critica del bipolarismo; ii) la ripresa della critica marxiana del capitalismo; iii) la conferma dell’importanza del Prc. Questi assi dovrebbero orientare l’agire politico del partito oggi. Sarebbe un buon punto di partenza se effettivamente tali proposte fossero il cuore della nostra politica. Ma così non è.

L’oggi

La terza parte del libro riguarda la situazione attuale. Si parte dalla crisi strutturale e sistemica del capitalismo, che arriva dopo trent’anni di compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Essa è causata, si osserva giustamente, dalla sovrapproduzione di merci e di capitale. In questa situazione, come comunisti, dobbiamo proporre soluzioni concrete per impedire che a pagare la crisi siano i soliti noti partendo dal metodo marxista che: “ci ha fornito di strumenti teorici e analitici per guardare dentro la crisi del capitale e intravedere le strade che possono portare a un mondo più umano e giusto” (p. 60). Ora tale terminologia è pericolosamente vaga. Chi non vorrebbe un “mondo più umano e più giusto”? Persino D’Alema! Occorre maggiore precisione, dato che oggi la confusione regna sovrana circa che cosa i comunisti abbiano concretamente da proporre. Gli stalinisti avevano un vantaggio da questo punto di vista: la loro alternativa era visibile, era l’Urss, il blocco sovietico, qualcosa di tangibile e, visto da lontano, con un certo potere di attrazione. I marxisti, che criticavano quelle società venivano azzittiti esaltando le conquiste della pianificazione sovietica. Oggi, a un giovane che si avvicini al partito, dopo decenni di serrata propaganda ideologica anticomunista, dopo che il nostro stesso partito ha seminato confusione su questo tema quando si diceva “un altro mondo è possibile” senza chiarire quale, occorre spiegare accuratamente che cosa vogliamo dire parlando di una società socialista, se no agli occhi di chi guarda a noi essa, se va bene, coincide con un po’ di intervento pubblico con cui cercare di frenare lo schiacciasassi della globalizzazione.

In sé, l’analisi della crisi proposta da Ferrero è condivisibile: non è la speculazione finanziaria che ha causato la crisi mondiale, ma la sovrapproduzione del capitale che cerca comparti dove investire e, non trovandoli nei settori produttivi già saturi, finanzia la speculazione. È anche corretta l’osservazione che non c’è nulla di intrinsecamente di sinistra nella mano pubblica: sono stati i paladini dei mercati e del liberismo a immettere masse immense di denaro pubblico per frenare la crisi, dimostrando ancora una volta che i borghesi non hanno alcuna posizione di principio da difendere, ma accettano qualunque proposta che preservi i propri profitti. È giusto sottolineare come la crisi economica e sociale si saldi ad altre crisi: quella dei rapporti geo-politici, con la crisi dell’egemonia americana, quella ambientale ed energetica, da ultimo messa in drammatica luce dall’emergenza petrolio nel golfo del Messico. Queste crisi si aggravano l’una con l’altra e dimostrano che è il capitalismo come sistema a essere in crisi. Ora, che fare di fronte a tutto ciò? Ferrero spiega che per uscire dalla crisi a sinistra ci vuole “un massimo di comprensione teorico-analitica e uno sforzo gigantesco di lavoro politico, radicamento sociale, presenza capillare” (p. 63), una formulazione accettabile se poi seguono proposte corrette e conseguenti. Così non è, come si vede massimamente nella discussione sull’”abisso italiano”.

Se la socialdemocrazia è alle corde in tutta Europa, dovendo gestire le conseguenze della crisi, in Italia è scomparsa, inghiottita nell’informe calderone liberale e borghese del Pd, il partito che ha regalato, con la patetica scusa della concorrenza, banche e industrie alle grandi famiglie, di cui è solerte cane da guardia. La cifra politica dell’aperta trasformazione dei dirigenti del Pci in fedeli servitori del grande capitalismo italiano la fornisce la nota telefonata di Fassino che si congratula con Consorte allora capo della Unipol (“finalmente abbiamo una banca”), per la scalata alla BNL. Questi erano i nostri alleati di governo (e lo sono ancora a livello locale). Nel libro si dice che Berlusconi persegue lo scopo di distruggere i corpi sociali intermedi (partiti, magistratura) per fare il leader autoritario plebiscitario. È vero, ma il Pd persegue lo scopo di assoggettare l’unica organizzazione dei lavoratori oggi degna di nota, ossia la Cgil. Allearsi con il Pd per frenare l’autoritarismo di Berlusconi significa farsi complici del disegno politico reazionario del Pd stesso. Berlusconi e Pd sono le due alternative a disposizione del capitale. Non è nemmeno possibile stabilire a priori quale sarà in grado di fare più danni. Di sicuro non ha senso scegliere di allearsi all’uno contro l’altro.

Ferrero osserva che si registrano controtendenze al ristagno, come i movimenti No Tav, No Dal Molin e No Ponte, e soprattutto la Fiom che avanza perché “se la linea è ritenuta “giusta” dal settore sociale rappresentato, sei i dirigenti sono ritenuti “coerenti”, l’organizzazione (sindacale o partito che sia) cresce anche dentro la crisi” (p. 83). Proprio così, ma a che serve questa osservazione se Rifondazione non ha avuto nemmeno il coraggio di schierarsi con la Fiom nel congresso della Cgil, preferendo mettere la testa sotto la sabbia con una posizione incomprensibile di neutralità? A che serve schierarsi con i lavoratori di Pomigliano contro la Fiat se non si combatte a fianco dei lavoratori di Pomigliano anche contro la burocrazia della Cgil che punta a emarginarli seguendo le direttive del Pd? Insomma, anche qui emerge quella che è la cifra della segreteria Ferrero: proclami altisonanti di svolta a sinistra ma la politica di sempre.

Nell’ultima parte del testo si affronta il tema della trasformazione sociale oggi. Purtroppo questa sezione risulta quanto meno monca, considerando che si sorvola completamente sulla situazione dell’America Latina, che è la zona del mondo dove negli ultimi anni si sono più concretamente dati movimenti di trasformazione sociale. Per certi versi, sembra che Ferrero cerchi a tentoni una strada verso il programma di transizione, quando sottolinea che l’intervento pubblico deve servire a rovesciare i rapporti di forza tra le classi. Così l’autore osserva correttamente: “l’intervento in questione non può essere semplicemente intervento di Stato, ma deve essere posto sotto il controllo dei lavoratori” (p 115). È anche positivo che si parta dall’esigenza di una trasformazione sociale internazionalista, superando l’esperienza stalinista dei “socialismi nazionali”. Più in generale, i singoli obiettivi posti da Ferrero sono condivisibili. Citiamo, in particolare la nazionalizzazione sotto il controllo operaio del credito (e in generale il tema del controllo operaio della produzione), formulazione che supera il classico keynesismo socialdemocratico (Ferrero dice infatti “non è possibile una riedizione della via socialdemocratica”), la riduzione progressiva dell’orario di lavoro come primo passo per la liberazione del e dal lavoro.
Meno di transizione e più immediati si pongono invece punti come la riforma fiscale (tassazione progressiva, tassa di successione e patrimoniale, abolizione dei paradisi fiscali) o la costruzione di alloggi popolari, e il salario sociale ai disoccupati, anch’essi comunque da sostenere senza dubbio.

Nel complesso, articolando questi obiettivi alla luce del programma di transizione, si può mettere insieme un programma radicale in grado di puntare al superamento del capitalismo, ma il segretario non arriva a tanto, lasciando i vari punti sospesi un po’ come una condivisibile lista della spesa.

Ad ogni modo, il problema chiave è questo: su queste basi Rifondazione potrebbe avere un programma decoroso, ma è il partito a versare in condizioni indecorose. Occorre dunque discutere di come rendere nuovamente il Prc un fattore decisivo della lotta di classe. Ferrero avanza anche qui una formulazione generica, ma condivisibile: ci vuole “un partito che si ponga chiaramente l’obiettivo di superare il capitalismo e il patriarcato” (p. 132). Ma come? Con il partito sociale, ossia proponendo al proletariato italiano di formare un gigantesco gruppo d’acquisto solidale contro le logiche del mercato? O, ancora peggio, proponendo un accordo di governo a chiunque ci stia per superare la logica del bipolarismo? Si parla di costruire il soggetto della trasformazione con sindacati, movimenti, si critica la concezione militare o fordista del comunismo, ossia, di nuovo, lo stalinismo. Ma al di là di queste giuste osservazioni, mancano i passaggi intermedi e anche il punto d’approdo finale. Manca, ad esempio, l’articolazione di una strategia sindacale, senza la quale il partito non è in grado di parlare alle centinaia di migliaia di attivisti sindacali di questo paese. La posizione verso il Pd è come detto incoerente e così via.

Quanto all’approdo finale, su cosa si dovrebbe basare il controllo operaio di cui il partito ha finalmente cominciato a parlare? Lo dice la storia di decine di rivoluzioni: i soviet, i consigli operai. Attraverso i consigli operai i lavoratori possono cominciare a fare esperienza su come si gestisce concretamente la produzione, i consigli costituiscono l’arena in cui le posizioni politiche dei lavoratori si possono confrontare, facendo emergere le soluzioni migliori. Superare il capitalismo significa, concretamente, costruire consigli operai in ogni azienda, banca, ufficio, coordinare questi consigli a livello locale e nazionale e su queste basi porre il problema del potere sulla finanza e le grandi aziende. Essere al governo senza potersi appoggiare su un movimento del genere porterà sempre alla sconfitta. Nel processo di transizione al socialismo questa è la struttura politica in grado di pianificare l’economia senza cadere nel dominio burocratico stalinista. Questo è il salto di qualità che manca ai processi rivoluzionari sudamericani per rompere con il capitalismo. La pianificazione basata sul controllo operaio della produzione è l’alternativa comunista alla crisi economica, politica, morale del capitalismo. Di questo dovremmo parlare.

In conclusione. Questo lavoro è lo specchio della attuale dirigenza del partito; radicale a parole, più ancorata a formulazioni ideologiche e politiche di classe rispetto alle gestioni precedenti ma quando si tratta di cose concrete che interessano milioni di lavoratori e di giovani, siano esse le elezioni regionali o il congresso della Cgil, ripercorre strade già viste, rimane nel quieto vivere che però ormai non permette al partito nemmeno di sopravvivere. Che cosa dirà dunque il futuro di questi dirigenti? Che mancarono di coerenza, di coraggio, di iniziativa.

La base del partito potrebbe cambiare questo stato di cose, ma per farlo deve cambiare essa stessa. Deve andare oltre l’appoggio a questa o quella mozione nei congressi. Deve impegnarsi in prima persona nell’intervento nella società. Distribuire pane, partecipare a una manifestazione o appoggiare l’occupazione di case sfitte serve… ma quello che cambierà la natura del nostro intervento e renderà credibile una autentica politica comunista è la diretta partecipazione nelle lotte operaie. L’anno scorso la INNSE, quest’anno, ancora di più, il voto a Pomigliano e tutto quello che implica hanno fatto molto di più per rafforzare l’idea di una alternativa al capitalismo che migliaia di cortei, giornali o feste. Si sente parlare del Prc come inutile se non è nelle istituzioni, dimenticando che appena prima della debacle del 2008 avevamo la maggior rappresentanza parlamentare della nostra storia! No, quello che renderà importante il nostro partito agli occhi dei lavoratori, dei giovani precari, delle donne sfruttate non sarà mai il numero di assessori e nemmeno di deputati, sarà la nostra capacità di essere accanto a loro tutti i giorni, spiegando pazientemente e organizzando le loro lotte, dimostrando nella pratica quotidiana che i comunisti sono seri, credibili, che a livello di fabbrica, di quartiere, nelle scuole e le università, se trovi qualcuno che ti aiuta a lottare e forse a vincere è un militante comunista.

Quanto più questo auspicio diventerà reale, tanto più si andranno formando i quadri politici, le donne e gli uomini che non sopportano l’odierno stato del partito, che non riducono la militanza a un calcolo elettorale, tanto prima parlare di comunismo tornerà a essere una cosa seria.

Economia, politica, storia, arte